Paris is a moveable feast ("Festa mobile" Hemingway). Blog su un erasmus a Parigi.

Saturday, October 29, 2005

Pause


Come amministratore delegato del mio assistito Vandi Claudio pubblico la presente per comunicare che il blog è sospeso per temporanea permanenza in Italia, non sono previsti aggiornamenti fino al 3 Novembre. Non si escludono comunque apparizioni improvvise, post in seguito a visioni mistiche, commenti in real time o in differita.
Avv. kobayashi

Friday, October 28, 2005

quarante et unième jour

Martedì. Vuoto di memoria. Martedì. Corsi: Sociologia soc. europee. Ora si. La conquista della mattina è che riesco a farmi il caffé prima di andare a lezione, e arrivo anche in anticipo. Il livello di attenzione è alto, quello del corso medio, oggi si iniziano gli exposé. La ragazza che presenta un saggio di Sennet fa una cosa tipo: questo è il capitolo 6 inizia dicendo che, poi dice che, e insomma questo e questo, poi un paragrafo su questo, quello, finisce dicendo così; i temi principali secondo me sono uno due tre quattro cinque, non ho capito questo passaggio, cosa ne pensate? Il prof. non fa una piega, si inizia un giro di pareri, mi pare tutto un po’ tautologico, confermiamo le stesse cose, discorso a giro stretto, lui che parla pianissimo. Non so, io sto preparando una cosa un po’ originale con qualche collegamento, qualche riflessione allargata, vorrei portare qualche copertina di giornale, citare dei film. Chissà se sarà apprezzato. Lui -prof- cita Eyes wide shut “tratto da un libro di un austriaco che si chiama si chiama…” suggerisco. Siete sicuro? Si. Ah è vero è vero, doppio sogno, Schnitzler. La ragazza giapponese che farà l’exposé con me è in gamba. Per la terza e quarta ora arriva la pazza dei sistemi sindacali, oggi si parla dell’impresa in Europa. Questa ha fatto consulenza a Tutte le aziende, tutti i gruppi, tutti. La notizia estremamente positiva è che io avendo già iniziato un memoire per Mme Guillemard non devo prepararne un altro per lei. Comunque la domanda più interessante è: come definire un’impresa “europea”? Per il suo capitale, sede sociale, comitato dirigente? Le principali dieci hanno tutte megaprofitti all’estero, sono delocalizzate, internazionali, e allora? Questione ouverte.
Cerco una boulangerie, quella buonissima in rue de Seine, ottima per mezza baguette, ci arrivate da rue Saint André des Arts. Spizzicate tornando all’università.
Incontro Sonia, pranziamo insieme e prepariamo un foglio sul caso Parmalat, dobbiamo presentarlo al corso di strategia, sempre per la pazza. Lei ci sarà solo questa sera quindi decidiamo di presentare la cosa e andarcene con una scusa, veramente non è per niente interessante, non è pigrizia. Ho stampato qualcosa da internet su Parmalat, tagliamo, ricostruiamo, traduciamo. Poi compro “l’art de la guerre” di Sun Tzu per il mio lavoro su Luther Blissett e andiamo a lezione. L’exposé riesce, se vogliamo escludere il fatto che nessun francese conosce Parmalat. Ma la prof. sembra molto divertita quando le diciamo che il documento di 4 miliardi di euro di Bank of America era stampato al computer. Grandi assi del crimine questi italiani. La banda del buco finanziario.
Torno al Foyer, doccia ricostituente e cena con gli altri. C’è la choucroute (vedi commento). I cavoli sono acidi e fanno schifo a tutti, poi arriva Robert e dice “ah, diner allemand” e se ne divora un piatto. Inizia una serie potenzialmente infinita di scherzi e battute. Ma si mangiava durante la guerra. Lo credo bene! Bisogna conservare la tradizione. Si, si, ma se al tempo avessero avuto una bella bistecca vedevi la tradizione dove finiva! Dopo cena compriamo una bottiglia di vino e andiamo a Republique. Io Johannes, Robert, Naima, Guillaume. Alle 9.30 l’idea geniale. Guillaume: E’ presto, perché non andiamo in quel posto vicino a Place de la Contrescarpe, quello arabo con la chicha e il tè alla menta. C’est génial! In mezz’ora siamo là. C’è posto questa volta. Grande atmosfera, veramente rilassante. Chicha alla mela, sapore senza fumi, aria pulita. Siamo tutti tranquilli, chiacchieriamo e il tempo passa leggero, qui si corre sempre altrimenti. Ci lamentiamo tutti delle inutili televisioni al plasma in un locale per il resto perfetto. Il tè alla menta è rilassante: dolce e caldo, con qualche pezzetto di foglia. Rientriamo al foyer per mezzanotte, contenti della bella e inattesa serata, la mia ultima a Parigi per una settimana.

Wednesday, October 26, 2005

quarantième jour

Mi sveglio veramente stanco. Dopo il corso tornerò a casa per scrivere un po’, mangiare la mia insalata e mezza baguette. Non ve l’avevo detto, ho trovato un treno per l’Italia giovedì, torno qualche giorno. Consiglio: se prenotate il treno dall’Italia non c’è mai posto, se lo prenotate dalla Francia si, mistero. Mi riposo un po’, leggo, scrivo. Alle 13.30 c’è un cocktail di benvenuto per gli studenti erasmus, alla buon ora. Discorso introduttivo intelligente, non troppo lungo, tavolata con ogni bene terrestre, mangiabile e bevibile. Si parla molto si scherza, chi deve studiare poi si carica con un bicchiere di vino. Quando vado in biblioteca sono colto dall’inevitabile calo di ogni funzione vitale dopo pranzo. Il caldo non aiuta. Leggo comunque qualcosa, prendo un libro consigliato : “le grand dérangement” di Balandier. Alle 18.30 c’è un rendez-vous de l’imaginaire organizzato da Maffesoli. In pratica una conferenza stile salotto, interventi e discussione, il tema sono le isole -perché a fianco c’è una mostra dal titolo off-shore-. E’ in un posto lussuoso in galerie royale, all’ Espace Paul Ricard. Sala piena, telecamere, riflettori, televisioni al plasma. Il buon Ricard non ha da risparmiare. Resto un’ora, la cosa è interessante, ma alle 20.30 c’è “Der blaue Engel” con la Dietrich. Questa volta parto un’ora prima. Arrivo e c’è una coda consistente. Due file, una è per il ministero della cultura, pare ci sia un party organizzato a nostre spese. Oggi è la giornata dei cocktail, ce n’era uno -evitato- anche al rendez-vous. Il biglietto è gratis per evitare code alla cassa e ci fanno andare in sala Epstein, questa veramente da cinémathéque, più larga che lunga. Mi siedo in prima fila per avere spazio per le gambe, leggo un po’ poi il film comincia. La figura del professore è geniale, molo caricata, un po’ Caligaris lui e l’ambientazione. E’ il prof. imperterrito, rigido, che vigila sugli allievi e ha il suo preferito. Un giorno li trova a sbirciare delle foto di una ballerina, soffiano su dei fili di stoffa per alzare la gonna e vedere le gambe. Noi non la vediamo. Lui requisisce, poi a casa, solo le guarda con disprezzo, poi fa un soffietto. Soffia. Sia guarda attorno e risoffia, ora siamo dalla sua parte e vediamo. E’ la Dietrich, Lola Lola nel film. Il professore decide di andare a prendere i suoi allievi all’ “Angelo azzurro”, il locale di Lola. Arriva là e inevitabilmente cade vittima del fascino per niente dissimulato della Dietrich. C’è chi dice: per il tempo era sexy. Aggiungo che anche oggi proprio male non è. Vezzosa e irriverente. La fine è crudele per quest’uomo sciagurato. Morale, come canta Lola : “non fidarti delle bionde”. Esco con un desiderio: voglio le porte che hanno nel film. Se in una stanza c’è musica e la porta è aperta la sentite a volume pieno, appena la chiudete nessun calo graduale, il silenzio assoluto. Porte tedesche, ermetiche fino all’incredibile. Questo deve essere piaciuto a Hitler. Un appunto: Word manca di memoria storica, segna in rosso “Hitler”.
Arrivo a casa e mi addormo senza problemi.

Tuesday, October 25, 2005

treinte et neuvième jour

Mattina da cenerentola. Mentre lavoro al computer lavo un po’ di cose. La domenica mattina qui è territorio di conquista, deserto. Benissimo per lavorare e lavare, lava et labora. A mezzogiorno appare Johannes nelle vesti del Satana tentatore. Una passeggiata? Un caffè oggi pomeriggio? La giornata è effettivamente bella, blu quanto basta. Finisco le mie cose e cedo. Camminiamo per il boulevard insieme a Bader -?- il suo coloc. del Marocco. All’angolo i non in ramadan prendono qualcosa da mangiare in una boulangerie: pain au chocolat lui e viennoise au chocolat io. Spizzico. Arriviamo a Pére Lachaise: “Come non ci siete mai stati?” tuono. “Entriamo” rispondono. Vaghiamo senza meta in questo luogo tutto fuorché spettrale, dove si cammina e si ride, alla facciaccia della morte. Pensiamo a un’ ambientazione Burtiana, alcune tombe sono talmente grandi da poterci abitare. Ci imbattiamo per caso in Proust, Wilde, Edith Piaf. Salutiamo con deferenza e continuiamo. Sic transit gloria mundi. Ogni tanto ci si sente ignoranti a non conoscere “Colui il quale ha reso grande la sua patria” o “Uomo di lettere di fama mondiale”. Ma contiamo sull’esagerazione degli epitaffi. Rientriamo, compriamo il necessario per un’amatriciana a regola d’arte con pasta Panzani, quella di Barthes. L’alba della critica pubblicitaria: un uomo -non qualsiasi- cammina per strada e vede una pubblicità di pasta italiana.
Preparo e mangiamo, sempre riferito a chi non è in ramadan. Non credo che ce la farei, più che Allah potè il digiuno. Dopo pranzo abbiamo un piano infallibile. Moschea di Parigi e Jardin des plantes. Fermata Jussieu. La moschea è bella ok, tutta decorata all’interno, bianca fuori, gente che prega lamentosa eccetera. Il caffè della moschea è un gioiello. Un po’ “uomo che sapeva troppo”, un po’ Casablanca. Alberi, uccelli, profumi orientali, tè alla menta. C’è troppa gente, ma ci ritorneremo. Il jardin des plantes ha un viale bellissimo con due pareti di alberi e un cielo che ci sta proprio bene. In fondo, sulla Senna ci sono delle discutibili sculture all’aperto e l’ile Saint Luis. Sulla rive gauche l’edificio dell’Institut du mond Arab. Forse il più bel edificio moderno a Parigi. Tutto in vetro e tubi d’acciaio, con una libreria e un negozio di oggetti da mille e una notte. Sul lato interno decine di quadrati di lamiera che si modificano ogni giorno regolati da un computer, per riprodurre in chiave moderna le decorazioni arabe. Salite fino al nono piano e c’è una terrazza poco conosciuta di Parigi. Vedete tutto: Notre Dame da dietro, Bastille, un po’ di Beaubourg, tutta la Senna. Davvero una scoperta. Si può anche bere un caffè, ma è tardi. Usciamo e incontriamo Adriana a Notre Dame. Il mio piano è di andarmene alle 20 per andare a vedere La madre di pudowkin. Intanto però facciamo un giro nel quartiere latino e prendiamo un aperitivo in Rue de la Huchette. Chiacchieriamo e scherziamo, da parte spagnola c’è desiderio di imparare l’italiano, si progettano sessioni di scambio. Sono le 7.45. Ora, per andare a vedere un film russo muto degli anni venti, per quanto importante, ci vuole una certa disposizione d’animo. Se avete appena bevuto qualcosa con degli amici e state ridendo e scherzando non potete andarvene dicendo “vado a vedere un muto russo”. Non sta bene e non starete bene. Quindi propongo di vedere un film insieme dopocena. Accettano, ce la prendiamo calma. Il film non si realizzerà mai, finisce che per aspettare tutti e cucinare una cosa assurda che parte come frittata, ma diventa un pasticcione di spinaci pancetta e uova non del tutto disgustoso finiamo alla 22.30. Tardi per il film, ma abbiamo creato la prima ricetta di un tomo di cucina Erasmus. Dormiamo pacifici e gratificati.

Monday, October 24, 2005

treinte et huitième jour

Sabato. Samedi. Same day. “Le samedi et la piscine d'abord”. Vado in piscina e mentre nuoto penso a cosa fare di questa bella giornata di sole. Quando esco penso a cosa fare di questa media giornata di nuvole. Ho un appuntamento rimandato con il mio uomo delle ostriche. Il programma è di andare alla Villette, parco e Expo di Star Wars. Resto un po' indeciso poi esco. Passo dal mio uomo, compro otto ostriche, mi spiega come aprirle. Pago una cifra irrisoria. A Stalingrad cambio metro ed esco al sole, di nuovo. Il parco della Villette è un esperimento, riuscito, di ridare vita a una zona periferica. La Geode riflette il cielo e moltiplica i colori, sembra un cucchiaio in un quadro fiammingo, riflette, nega la superficie. Gli alberi, aceri soprattutto, sono rossi di un rosso acceso, non arancione. Molti bambini che giocano, un canale ed erba verdissima. Mi installo su una panchina e apro il mio sacchetto. Lotto con la prima ostrica, faccio un po' di danni prima di aprirla, poi imparo, ora vi insegno come si fa. Prendete la vostra ostrica, la tenete in mano volgendo il tallone verso di voi, sulla destra deve esserci un punto in cui le due valve si uniscono. Infilate li il vostro coltello senza affondare troppo, fate un po' leva e lo fate scorrere per tutta la lunghezza, dovete tagliare l'appiglio che tiene unite le due parti. State attenti a non infilzare la polpa altrimenti si apre e il gusto cambia. Deve rimanere un po' d'acqua che da' il gusto salato. Poi la risucchiate e mangiate un pezzetto di pane. Mangio ostriche al Parc de la Villette, in me mi sono compiaciuto. Butto i resti ed entro alla Villette, prima tappa il bagno per lavarmi bene le mani, non voglio dare l'impressione di aver lavorato all'acquario prima di venire qui. Prendo il mio biglietto con Yoda sul retro e tante stelle. Subito prima di entrare c'è già un pod, uno di quegli aggeggi con cui fanno le corse. L'Expo è veramente fatto bene (sorpresa!) tutto buio e con le pareti nere, al centro alcuni personaggi, dei maxischermi con gli estratti del film, un mezzo spaziale. Ai lati otto sale divise per pianeti e per capitoli del film. Ci sono spiegazioni scientifiche, i modellini originali, i personaggi a grandezza originale, i costumi, le spade laser, i backstage, Chewbecca e tutti gli altri simpatici amici con o senza pelo. C'è Dart Vader, il calco di Ian Solo, le guardie imperiali. Non sono un fanatico, altrimenti ci sarebbe da restarci secco, con tutti i disegni e i piani dei palazzi. Le famiglie portano i bambini, ma sono i genitori i veri interessati, li vedi spalancare gli occhi e perdere gli infanti. C'è una sorta di teatro dove si può esercitare la propria forza: mettendo una mano davanti a un sensore, se non la si muove la nave si solleva e voi siete il prescelto. Uscendo comprerei tutte le spade laser che incontro, ma soprattutto il portabiscotti a forma di C3-PO, feticcio del maniaco. Torno a casa per scrivere un po' il memoire di Soc. delle Soc. Europee. E pensare che avevo paura di non sapere scrivere in francese, essere obbligati è un buon modo per apprendere. Mangio della pasta con del formaggio e scappo alla Cinémathéque, c'è “Vivre sa vie” di Godard. Arrivo con 15 minuti di anticipo, ma non c'è più posto. Hanno sbagliato i calcoli. Pensavano ci fosse meno gente. Ma è Godard, dico io. Godard è la Cinémathéque. Sono molto deluso, hanno lasciato un po' di posti per l'acquisto su internet e si resta fuori. Non ci si può sedere sugli scalini, Ciné poco proletaria. Vago un po' per l'edificio di Ghery, che fare? Vedere il film delle 21.30? Tornare a casa e restarci? Uscire con qualcuno del Foyer? Mi siedo, mi rialzo, vago. Fuori piove. Smette, prendo la metro. Se incontro qualcuno bene, altrimenti serata in solitaria. Ho voglia di parlare francese, bere una birra e ascoltare jazz, mi muovo solo a queste condizioni. Che si realizzano tutte. Incontro Johannes e decidiamo di raggiungere Adriana e altre amiche spagnole al Mo's Bar, in rue Saint Jacques duecentoequalcosa. Ci mettiamo un po' perché le indicazioni sono sbagliate, cambiamo quattro metro, ma il posto vale la pena. Niente di speciale: birra buona, swing dal vivo, locale con due sale una piccola e l'altra piccolissima. Si chiacchiera molto, c'è un buon clima. Un'amica studia filosofia alla Sorbona. Tutti si lamentano un po', ci si aspettavano tutte cose molto più interessanti, o forse più cose precotte. Invece bisogna restare attivi e cercarsele, ma ci sono, questo è il punto d'arrivo. Rientriamo con l'ultima metro e da Nation si cammina perché non ce ne sono più.

Sunday, October 23, 2005

triente et septième jour

Venerdì. Titolo: grandi speranze. Alle 9.30 il corso di economia della cultura -alla fine si tratta di questo-: La Noia. Cioè io non posso, proprio non posso seguire il corso di una che parla così “Alors, chapitre 1 point 2 l’analyse du sectuer” cioè legge gli appunti dettando capitoli, sottolineando le frasi tra virgolette, e ripete incessantemente “autrement dit”. Ma allora dammi un libro, delle dispense, non venire a parlare per fare una carrellata di eventi in colonna, tipo millenovecentottantaquattro succede questo, poi millenovecentottantasette quest’altro. Lei sarà sicuramente un ottima consulente per i ministeri, ma non appassiona certo a un soggetto tiepido di suo. Finita la lezione chiedo se posso fare un memoire su come il cinema è diventato arte e di quali finanziamenti gode. Dice si, ma anche no, ma non parli male perché non fai il compito scritto con gli altri? Credo invece che cambierò del tutto esame, almeno qui posso scegliere, mi sono aggiunto due corsi apposta come paracadute. Seconda notizia triste della giornata: per l’inchiesta possono scegliere 10 persone su quindici. Basta dire che sono l’unico senza esperienza, senza cittadinanza francese, senza tanto tempo libero per gli adorabili vecchietti. Chiederò di collaborare esternamente, mi mostrerò interessato, ma zero possibilità. Alle 15 me ne vado fiero al seminario della Normale su Deridda. Rimango deluso dall’edificio e dall’aula modello cinema, dentro è tutto molto brutto, ma gli spiriti eletti non guardano alla volgare materia giusto? Il Seminario. La Follia. Questi danno per letto tutto Deridda. Uno ha un titolo che c’entra con Aristotele, ma parla del non rapporto di Deridda con Aristotele però mediato da Plotino e con una coda Hegeliana, la parola chiave è apeiron. Ma per farvi capire bene è sufficiente dire questo: il tizio è vestito con una camicetta viola, ha un foglio pieno di post-it. Con “pieno” intendo dire che sul foglio non c’è scritto niente, l’ha riempito di post-it arancione e poi ci ha scritto sopra. Uno insegna per evitare la psichiatria. Il secondo intervento citucchia a destra e a manca. “La parola media” che cercava Barthes qui non è di casa, c’è un gusto veramente onanistico per l’intellettualismo militante. Ovviamente me la batto alle quattro. Per non tornare a mani vuote vado alla revue parlée del Pompidou. Notare la comodità di questo posto, a un passo dalla Senna è veramente un edificio che ha creato una socialità nuova, la gente ci va per passarci, per incontrarsi per entrare anche solo a dare un’occhiata. Una mossa sola fa quartiere, città, urbanistica. Anche la mecca è stata buttata li, quello che fa di un luogo un Luogo è quello che si crea intorno, non i distributori automatici.
La revue è su un autore francese che spero non conosciate: Pierre Guyotat. E’ un meccanico della parola. Le smonta, rimonta, decostruisce, sillaba, le fa suonare e muovere. Due cose del filmato biografico mi piacciono molto. Quando dice che il suo limite sperimentale è l’etimologia latina, non va oltre, è il bordo del senso, il resto è suono vuoto. La seconda cosa è l’importanza del ritmo, non riuscire a leggere un’insegna senza prendere le battute, sillabarla. Al lavoro poi è come noi, batte sul tavolo rileggendo, si impunta su una parola e muove la mano per sfogliare il registro, varia i toni. Una scoperta interessante, per ora inaccessibile alla lettura. Torno a casa ceno con la mia fedele boite dopo cena si esce dove andiamo? Bastille. No. No. Basta. Dire “Je n’ai assez di Bastille” mi piace, un po’ come dire sempre nello stesso posto? Come attecchisco bene.
Risaliamo rue de Bagnolet, rivelatosi quartiere pieno di vita. Molti caffè. Entriamo in un locale che è una vecchia stazione, non si paga l’ingresso, dentro si suona rock a metà tra anni ottanta e Doors. Qui dire che in un locale si suona musica live è pleonastico. E’ caldissimo, si fa fatica a parlare, dopo un po’ usciamo e andiamo verso place Edit Piaf -Rieen rieen je ne regrette de rieeeen-. Prendiamo la metro e rientriamo al Foyer, mangiamo qualcosa, chiacchieriamo un po’, una ragazza ha dei campioni di digestivi tedeschi, si brinda con l’odore in pratica. Bella serata, davvero. Risolleva la giornata e le dà anche il colpo di grazia.

Saturday, October 22, 2005

treinte et sixième jour

Oggi vado all’ospedale. C’è la riunione per l’inchiesta sui vecchi di Parigi, al Kremlin-Bicentre. Un tristo ospedale periferico, cemento e finestroni? No, una sorta di tenuta nobiliare con giardino interno. Ci sono quelli che raccolgono le foglie e potano gli alberi. Dentro l’ospedale. Alla riunione siamo quindici, sono l’unico straniero, il più piccolo e l’unico a non aver fatto inchieste. Sono l’asso degli handicap -lingua, età, esperienza-. Ma per ora non si parla di selezione. Il lavoro è un lavoro vero. Si tratta di chiamare gli allegri vecchiotti con più di 75 anni, fargli al volo un test di memoria e poi andarli a incontrare. In teoria hanno ricevuto una lettera che li avvisa della cosa, ma chi si ricorda. Una volta che hanno accettato gli si deve propinare un questionario di 32 pagine su salute, vicini, abitudini. Tutto questo nato dalla moria del 2003, ve l’avevo detto io che qui la canicule non aveva scherzato. Forse l’unico punto a mio favore è che io c’ero quell’estate. Esci un po’ disorientato. Non so che fare, la cosa mi interessa, ma pensavo fosse diverso, lavorare solo sui questionari non mi entusiasma, il lavoro è tanto, bisogna chiamare, spostarsi, però mi affascina. Ho una settimana per pensarci. Torno a casa perché anche oggi per andare alla Villette non ho il tempo né la macchina fotografica. Mangio un’insalata mentre davanti a me si compie il crimine: lei butta degli spaghetti, fa un giro intorno al tavolo e gli spaghetti sono pronti, in tre minuti. Li mette nel piatto e via una bella badilata di ketchup. Lavoro un po’. Mi riescono tre pagine sul tema referendum italiano, in francese. Non poco per quanto mi riguarda. Cioè, per ora sono solo io a chiamarlo “francese”, non so veramente cosa sia. Lavoro fino all’ora di cena, poi si decide per una birra fuori dal Foyer, si chiacchiera molto, ogni tanto mi si incagliano le “r”. Rientro in camera e parlo un po’ di politica con Diego, fino a poche settimane fa sapevo al massimo chiedere una baguette in francese, adesso parlo -male- di partiti. Non male, ma devo muovermi dalla sensazione di saperne abbastanza per vivere. Mi piace discutere anche perché mi ricorda Bologna, le serate a parlare di arte-politica-letteratura-filosofia tutto insieme. Bello, ci si sente un po’ più umani prima di addormentarsi.

Thursday, October 20, 2005

Treinte et cinquième jour

Mercoledì, credo. Ricostruisco le giornate a partire dai corsi che ho. Tipo: mercoledì mattina niente. Allora cosa ho fatto? Volevo andare alla Villette -iniziata mostra su Star Wars, bella giornata, parco con aceri rossi- ma la linea 7 ha avuto la buona idea di rompersi. Scartata. Devo portare a Sonia la mia carte Orange ormai inutile da prestare al copaine che arriva giovedì. Ci si incontra al Centre Pompidou (perché è bello dire “ci vediamo al centro pompidou”). Consegno il mio omaggio e la seguo a Les Halles, con il tempo che ci vuole per spostarsi a Parigi non si può uscire e rientrare nel giro di mezz’ora. Les Halles sono vuote, io devo cercare una stampante, lei un regalo -un cuscino arancione-. Compro una tazzina, non posso avere moka e caffè italiani e bere in un bicchierone. Ci sono molti negozi che si potrebbero trovare nei passages di Parigi, peccato siano qui, senza personalità. Alla Fnac trovo la mia stampante, me ne carico e vado a prendere l’autobus, molto più comodo che la metro in caso di pacchi ingombranti. Per cinque minuti l’autista deve cambiare strada per un’interruzione. Tutti guardano dai finestrini come se scoprissero una città nuova, entrano ombre diverse. Arrivo a casa, monto il mio apparato tecnologico e scendo a cucinare. Perché butto del pomodoro in una pentola, aggiungo delle spezie e cucino una pasta al limite della decenza sembro Il Cuoco. A destra e sinistra sempre sughi pronti. Offro del parmigiano, accolto come acqua nel deserto. Caffè preparato con diligenza. Il tempo di leggere un po’ e riparto per il corso di semiologia. Elementi positivi della giornata: parlo con la prof, posso fare un memoire un po’ su quello che mi pare “sa io studio a Bologna, noi queste cose le facciamo alla terza lezione del primo anno, non al Master” (non proprio così). Spero di poter trovare un alleata sul campo per suggerirmi seminari e opportunità semiotiche. Esco comunque una mezz’ora prima per evitare l’intossicazione da trattini + e - e arrivare in tempo per la cena al Foyer. Un gruppo va al cinema, ma io non posso. Come, direte voi, senso di responsabilità e studio? No, ho un posto per l’anteprima di A History of violence di David Cronenberg. In presenza di Regista e primattore (Viggo Mortensen). Arrivo un quarto d’ora prima, si fa la fila, poi la sala è strapiena. Avete presente quei discorsi introduttivi pesantissimi pieni di deferenza e magnificazione, tutti incentrati sulla biografia e “io l’amavo quando ancora nessuno..”?. Niente di tutto questo, il presidente della Ciné è ironico, ancora di più lo è Cronenberg. Viggo Mortensen non è più l’Aragorn capellone sporco e cattivo, è un personaggio secchino, di un biondo slavato. Parlano del film, della Ciné che è francese, ma patrimonio di tutti i registi, qui per la prima volta il cinema è stato chiamato arte ecc. Cronenberg parla in inglese, Mortensen in francese molto stentato. Quando il regista gli dà la parola lui dice solo “hemm” e Cronenberg “Vedete con cosa ho a che fare sul set?”.
Il film. E’ un gran film per la costruzione narrativa, come inizia, come ogni elemento si incontra come per caso, il passato che arriva in una macchina nera. Davvero ben fatto, con tutti gli ingranaggi che si sistemano al secondo preciso in cui devono scattare. C’è molta inquietudine, è una storia d’amore immersa nella violenza, violenza per ristabilire la pace. Il suo personaggio è da Tarantino, l’intreccio è semplice, con molti punti lasciati in penombra. Certo mi direte voi, si può anche fare un film senza braccia che si spezzano, pallottole in testa -tutto quel cervello che cola- nasi che schizzano sangue. Si, si può, ed è un peccato che ci sia la violenza, perché per il resto il film prende comunque allo stomaco, un po’ sul genere Mystic River, un po’ Padrino. Adoro Ed Harris nel ruolo del cattivo senza un occhio. Me ne vado prima del cineforum, se ci pensa un po’ uno ci arriva da solo ai significati, poi domani ci sono i giornali apposta.

Treinte et quatriéme jour

Quando hai lezione dalle 9 alle 13 e dalle 17 alle 19 non è che ci sia molto da raccontare. A parte che la lezione della sera dovrebbe essere sull’attore strategico, e invece diventa una lezione sulla strategia aziendale, sul chi controlla cosa, come analizzare questo e quello. C’è una prof. differente, la stessa che la mattina mi ha fatto due ore sui sistemi sindacali europei. Scalpito, la cosa è molto piatta, odio avere la sensazione di perdere tempo alla Sorbona, alla Sorbona dico. Forse è colpa mia, non è giornata. Usciamo e commentiamo pesantemente il corso, un po’ di rabbia e amarezza. Visto che ormai sono in ritardo per la cena al Foyer e non ho chiesto la mia boite ceno con Sonia. Facciamo una piccola spesa di broccoli e pasta. Andiamo da lei e ceniamo con le sue coinquiline, si chiacchiera un po’, ci si tira su. Ah, dimenticavo, dopo 45 minuti esatti del corso capisco che la via per una formazione sana sono le Scuole. Normale forse, Hautes Etudes, College de France. Devo informarmi e seguire. L’università va setacciata, non comprata in blocco ormai. Verso le 11 sono a casa, incontro un po’ di gente del Foyer, anche loro ogni tanto sono delusi dai corsi, ma c’è voglia di fare, di cercare stimoli, Parigi non aspetta altro. Ma la notizia del giorno è che trovo la mia carta imagineR nella mia buchetta. L’aspettavo da un po’, la mostro a tutti quelli che incontro, niente più biglietti e carte settimanali, costose e scomode. In più il pass resta a vita, quindi casomai tornassi basterebbe ricaricarlo. Un post corto per una giornata compressa.

Wednesday, October 19, 2005

treinte et troisiéme jour

Don’t come knocking, don’t come knocking, don’t come knocking anymooooore. Mi perseguita. Vedo il film la mattina e la canto per tutta la giornata. Don’t com knocking di Wim Wenders, con Sam Shepard -che ha scritto anche la sceneggiatura-, Jessica Lange, Tim Roth, Sarah Polley. I primi che passavano. Film e film nel film. Lui è un attore western di Hollywood “meglio di Jessy James” che all’inizio del film vero se ne va dal set di un film nel film. Cavalca e cavalca, usa carte di credito, cellulare, torna dalla mamma. Immaginate le location di un western con i colori e le inquadrature di Wenders. Sembra lo spot di “Come to IUESSEI”. La domanda però è: perché lui se ne va? Cerca suo figlio. Ma non era la sceneggiatura di Broken flowers (vd.”vingt et deuxiéme jour”) Stanno tornando di moda i road movie. Una versione aggiornata in cui gli eroi usano internet e macchine digitali, ma qui almeno l’auto è una vecchia gloria. Volendo dire qualcosa di molto sociologico si potrebbe parlare di un ribaltamento, se un tempo trovavamo soprattutto figli in cerca dei propri padri e delle proprie radici, ora sono i padri a mettersi in marcia. In effetti è più logico: prima non si questionava la morale di chi aveva abbandonato la famiglia, ora sono i “fuggiti” a ricercare una responsabilità negata. E i figli li rifiutano, con la mamma si vive bene, sei arrivato tardi, chi sei? E’ normale. E comunque tutta questa riflessione sul chi siamo cosa facciamo era un po’ che non si vedeva e soprattutto era stata trattata poco in film piacevoli, lontani dai polpettoni psicologici di kieslowsky (con tutto il rispetto). Non c’è bisogno di tormentare lo spettatore per parlare di sofferenza. Qui c’è anche una bellissima musica, c’è ironia, non dialoghi trascinati per ore. Silenzi semmai. La scena di Roth che si rade nel deserto è un capolavoro che nemmeno Hopper aveva tentato. Hopper per altro citatissimo. Insomma andatelo a vedere, chissà come lo avrete tradotto in Italia: il frutto del peccato? Per dare un tocco di religioso che non guasta mai?
Gli eventi della giornata sono quasi tutti qui, il corso è stato prima del film, dopo c’è stato un po’ di studio chez moi, un pranzo e la sera un po’ di chiacchiere e un altro pezzo di film in dvd. Troy-che in francese si pronuncia come “3”-. Il film è decisamente ridicolo, questo di Homer conosce solo il Simpson. Per fortuna anche Robert ha letto “il libro” e disapproviamo insieme. Però sentire gli eroi greci parlare francese fa molto ridere ve lo assicuro. Achille (ascille), Paride (Paris) si arrabbiano, ma davvero dire “il se croit invicible derrier ses hautes murailles” non suona per niente minaccioso.

Monday, October 17, 2005

treinte et deuxiéme jour

Dimanche c’est toujours dimanche. Inizio la giornata con un atto di democrazia. Lo sguardo fiero del giovane garibaldino, il passo deciso del partigiano sull’appennino mi reco democraticamente a sostenere il mio candidato dell’Unione alle primarie. Anche se il mio voto si perderà sulle alpi, portato a mano da una staffetta munita di slitta, il senso civico trionferà, il nemico verrà ricacciato nella sua tana e l’odore del trionfo invaderà le strade. Bene, per non rischiare di essere arrestato come sovversivo-di questi tempi- devo dire che in realtà arrivo al seggio dopo aver compulsato una cartina, in una fredda mattina di Parigi. Devo anche dire che “il seggio” è una sede dell’Acli, dove pongo una crocetta sulla scrivania dove mi porgono il foglio, non ci sono grandi segreti, non c’è niente da nascondere, nessuna vergogna. C’è una tal voglia di esprimersi fuori da una manifestazione, di poter finalmente dire “basta”. Mi sento sempre bene dopo aver votato, non sono affatto della schiera “tanto non serve a niente”. Credo profondamente che questa sia l’eredità più concreta del dopoguerra, teniamola stretta e non sputiamo su chi ci permette di muoverci ed esprimerci -più o meno- liberamente. Ok, finito la mia prefazione al libretto rosso dello studente all’estero posso continuare. Anzi no, prima finisco l’angolo della politica. Quattro milioni di voti non sono pochi. Era la prima, abbiamo votato in più che gli americani, che però non sparano a un vicepresidente che va al seggio (sparano nelle scuole potrebbe dire qualcuno). Se c’è un primo e un terzo mondo noi occupiamo la seconda posizione, perché abbiamo amici tra la giuria. Un commento a chi mi ha detto (anche oggi) ma i politici sono tutti uguali fanno solo il loro interesse, non è B. il male dell’Italia che è poi lo stesso commento rivolto a chi ha detto “vince solo se votano i suoi” (e chi se no? Il Vaticano? Il consesso dei monaci nepalesi? L’associazione studenti del Chapas? Chi, di grazia, chi?) : prrrrr!
Per fortuna che ci sono le mostre di Parigi a risollevarti. Al Grand Palais Klimt e Schiele. Accidenti, c’è troppo fila, che si fa? Va bé andiamo alla Bnf, c’è una mostra sulle foto di Salgado. Va bene, se proprio non c’è niente di meglio (qui si ride per esorcizzare l’abbondanza, non la miseria). E’ nella succursale in rue Richelieu. La città è deserta, ci arriviamo per un passage che sbuca in rue Vivienne, sembra costruito ieri. Nella biblioteca una sala di lettura fantastica, quelle classiche dove nei film ci sono due che si incontrano e parlano a voce troppo alta. O in cui lui detective lavora fino alla chiusura per trovare dei documenti (inquadratura dall’alto). Oggi non si può, ma tornerò per fare la tessera e studiare qui. Le foto sono tutte in bianco e nero, le prime sulle Galapagos (iguane, crateri) le altre sulle zone povere del mondo. Si studia l’impatto della rivoluzione industriale in Brasile e in Africa. Gente come formiche nelle miniere. Un solo uomo col fucile che li controlla. Certo che se ti chiami Che Guevara e da giovane fai un giro in questi posti un po’ di voglia di rivoluzione ti viene. Ci sono anche foto delle nostre tonnare. Prossima tappa il Beaubourg, ultimo giorno della mostra sul design. Prima però bisogna mangiare qualcosa. Va bene. Ci rassegniamo al Marais, giornata un po’ umida, Marais pieno di gente. Ebrei per strada che vendono limoni del Marocco per una festa celebrata lunedì, mi informo sul nome: Sukkot. Prendo in giro Sonia per le sue origini palestinesi. Si va a mangiare a “L’as du falafel” il miglior ristorante turc-palest-israel nel Marais, anzi a Parigi, di più di più nel mondo. “Consigliato da Lenny Kravitz” (allora le se lo dice un vero gourmet specializzato in kebab non si può che inchinarsi). La mezz’ora di fila testimonia il gradimento del pubblico, o l’abilità del marketing. E’ veramente buono, kebab e falafel una spanna sopra agli altri. Uscendo si dichiara uno sciopero del sandwich turco di almeno un mese. Se leggete in anticipo la parola kebab fatemelo notare. Piove un po’, ma il Beaubourg non è lontano. Fila per tutta la piazza… ma con il pass annuale rido di voi, e entro senza un secondo di attesa dalla porta preferenziale, deposito lo zaino e non faccio biglietti. Già questo è gratificante, credetemi. Prima della mostra proviamo il labirinto virtuale allestito per la notte bianca. In pratica ci si mette un cerchietto sulla testa, si entra in un ambiente vuoto, fuori c’è lo schema del labirinto da memorizzare, se si toccano i muri immaginari il caschetto vibra. Sospetto una telecamera che riprende le mosse di questi sbandati che si muovono come in una foresta inesistente. Mi sento un po’ Depp in Paura e delirio a Las Vegas. Scappati dal labirinto passiamo alla zona design. Interessante un megaschermo della motorola su cui si può “disegnare” con una bomboletta finta che ha un sensore sullo spray, questo invia messaggi allo schermo che si colora secondo i vostri movimenti. Le mamme si contendono la bomboletta con i bambini, mi ci metto anche io, ovviamente. C’è l’angolo della apple, il cunicolo delle lampade Artemide, un progetto per migliorare il sistema di voto americano. Ma voi le avete viste le scatole con cui hanno votato in florida nel 2000 ??? Da non credere. Mi considero un essere mediamente intelligente, e non ho capito niente, dico niente, zero, null. Si mette la scheda, si ruotano i fogli e si punzona, tutto questo per una trentina di cartelle, poi si estrae la scheda e si controlla se i buchi corrispondono ai codici, in caso si ripete. Il tutto in una valigia aperta su un banchetto. Immagino un’angoscia da esame di maturità prima del voto. La mostra finisce con un computer che illustra alcuni progetti in corso. Uno in Africa distribuisce una giostra per bambini che trasforma la rotazione in lavoro per estrarre l’acqua da un pozzo. Geniale. Per una volta “lavoro minorile” ha una connotazione positiva. Dal Centre si esce stanchi, ma fuori è tornato il sole, clima estivo. Tanta gente, sembra una domenica di festa, senza la frenesia economica del Natale. Mangiamo un roulet ai semi di papavero e torniamo a casa.
Ceno con due biscotti perché il sandwich (sad-witch) è stato un colpo di grazia. Alle 20.30 c’è Viridiana di Bunuel alla Cinémathéque, arrivo in anticipo come sempre. Nous sommes desolés, le films est annullé. Problemi tecnici, accidenti. Insieme ad altri ripiego su “Le crime de Monsieur Lange” di Jean Renoir (1936). Un film semplice, ambientato in una casa editrice, lontano da Citizen K. La sceneggiatura è stata adattata da Prevert. La narrazione è conradiana: loro arrivano in un albergo alla frontiera belga, si nascondono, lo riconoscono e lei racconta la storia. Semplice e leggero, il film fatto bene, gli attori bravi, qualche trovata. Tipo lui che diventa famoso pubblicando una storiella per bambini “Arizona Jim” e il caporedattore che fa la corte alla cagnolina per ingraziarsi il finanziatore: “Ha un profilo greco” “E’ belga”. Rientro a casa per le 23, Diego è tornato questa sera, chiacchieriamo un po’ prima di addormentarci, si decide di parlare italiano ogni tanto, quando a lui serve per qualche esame o per un ripasso. Giornata gratificante.

Sunday, October 16, 2005

treinte et uniéme jour

Secondo giorno in compagnia. La mattina passa al computer, mail e resoconti. Nel primo pomeriggio entrano in campo due forze: il museo d’orsay e il pranzo preparato dai tedeschi. Ora bisogna sapere che il tema della puntualità legato alla popolazione teutonica è più che altro un mito. Una promessa da compagnia aerea. Il pranzo è alle due. Alle due mi telefonano “siamo ancora a fare la spesa”, si scivola alle tre. Alle tre iniziano a cuocere qualcosa, alle tre e mezzo preparano una sorta di polpette. Alle 15.45 me ne vado scusandomi, mangio un panino in metro. Già così è tardi se si conta la coda del museo e la chiusura alle 18. Il d’Orsay è un museo di mezzo. Prima c’è il Louvre, dopo c’è il Beaubourg. Vale per la ripartizione delle opere, ma anche geograficamente. Se siete sulla riva destra è impossibile raggiungerlo in meno di mezz’ora. Lo vedete lì, ma prima dovete attraversare il Louvre o le Tuileries -oggi affollatissime: è piena estate, maniche corte e qualcuno anche pantaloncini- poi attraversare la senna. Non ci sono ingressi preferenziali. Arrivato là ritrovo le mie ospiti ed entriamo. Vorrei fare la carta annuale, ma oggi è chiuso. C’è una successione precisa per i pass. Se fate prima il d’Orsay avete uno sconto al Grand Palais, dove però potete comprare una carta annuale che se avete la tessera della Bnf costa meno. Se sbagliate l’ordine delle iscrizioni ve ne accorgerete in ritardo.
Tornando al museo museato -se esiste calcio giocato non vedo perché no- sono tra quelli che credono che la cosa più bella del d’Orsay sia lui stesso, l’edificio. Una ex stazione che ha mantenuto orologio d’orato e vista sulla Senna. Se ne volete una ricostruzione guardate “Une long dimanche de fiançailles” verso la fine lei telefona dalla stazione. I pastelli di Degas e di Lautrec sono tra le cose più belle, peccato che inzino a chiudere quando ancora dobbiamo finire tutto il giro. Cerchiamo di sfuggire a un po’ di controlli, ma il piano è collaudato, no pasaran. Usciamo e andiamo agli Invalides, confondibile da lontano con il panthéon per la cupola, ma questa ha un po’ d’oro. Nelle lettere persiane il viaggiatore è impressionato dalla grandezza di un edificio per ospitare gli invalidi di guerra. Siamo in effetti su un altro piano rispetto a Emergency.
Un salto al supermarket per accaparrare provviste per il viaggio di ritorno e usciamo di nuovo. Marais, ceniamo in un posto molto carino in rue de la Croix de la Bretonniere, poi andiamo alla Tour Eiffel, vista Trocadero. C’è molta gente, un matrimonio, un po’ di vento. Ma lei è là, rassicurante e immobile. Si va a dormire non tardi, ma abbastanza stanchi. Il viaggio è corto, ripartono lunedì mattina. Baci e auguri, scambio di pacchi.

Saturday, October 15, 2005

trentiéme jour

Grande evento. E’ arrivata la sorella. Con lei un’amica e un mucchio di aiuti umanitari. Biscotti, cioccolate, libro côte copine, pantaloni maglie côte mama. Povero me, emigrato a Parigi. E’ bello ricevere qualcosa da casa. Ero partito senza il kit dell’italiano all’estero -moka caffè parmigiano- ma mi ha raggiunto. Quanto mai gradito. Qui sulla pasta ci mettono il gruviera, e le mie lamentazioni sul caffè non potevano restare inascoltate. Merci à tous! La nostalgia passa per il corpo, quindi il cibo è il modo migliore per legare due istinti. Mi sento accudito. Se riuscirò a costruire una borsa nera del caffè e parmigiano italiano spedirò una parte dei proventi a casa. Se potessi avere mille lire al mese. Alle 9.30 vesto i panni della guida e del turista e vado alla Gare de Bercy a raccogliere ciò che resta di due ragazze dopo un viaggio notturno praticamente insonne. La giornata, anche oggi, è dalla nostra. Arriviamo all’albergo, lasciamo i bagagli e andiamo al Centre Pompidou, che fa sempre il suo dovere, molto ospitale. Luminoso e pieno di tubi. Da qui il Marais è una tappa obbligata, vietato tirarsi indietro. Museo Carnevalet e annesso giardino in soluzione unica, tanto per capire come funzionano le cose. Place de Vosges, panino e panchina. Foglie. Acqua. Ancora foglie. Davanti a noi pic-nic in piena regola. E foglie. Le viaggiatrici ritornano in albergo, poi fanno un giro a Saint Germain. Io torno al foyer e faccio un giro alla Sorbonne. Dovrebbe iniziare un seminario, ma oggi si presentano le equipe di ricerca. Ce ne sono decine (cfr. università italiane) tutte condotte da giovani laureati, ma aperte ai laureandi. Ci si incontra per discutere, in maniera informale. Per aprire nuove porte e chiuderne di vecchie. O nuovi orizzonti. O prospettive. Spazi. Territori. Cassetti. Magari non servono a niente, ma è bello poter dire “fondiamo un gruppo di ricerca” e sentirsi rispondere “si”.
Ci si ritrova per andare a cena a Montmartre. Incidente nella metro, riconfigurazione piano d’attacco. Arrivati là risaliamo Rue Lepic, salutiamo il bar di Amelie (les deux moulins, grazie Filippo). Vediamo un po’ menù e ci sediamo in rue des Abbesses. Carne e patatine fritte, essenza francese. Si continua verso Montmartre, place de Tertre e la torre che si illumina da lontano. Anche oggi giornata bellissima, sole e caldo.

Friday, October 14, 2005

vingt et neuviéme jour

Cosa? Ancora notizie da Parigi? Niente di sorprendente. Alle 11 abbiamo appuntamento con il nostro uomo-coordinatore. Ci ha promesso che avrebbe firmato senza problemi e così fa. In più si dice disponibile a “inviare una lettera” se abbiamo delle proposte di stage. Conosce molta gente, sa a chi mandarla al Louvre, al Museo d’arte contemporanea, case editrici. Non dite così, non è una vera raccomandazione, è solo una domanda di stage. E comunque voi rifiutereste una raccomandazione per il Beaubourg? Chi è senza peccato scagli la prima coscienza. Certo non ci sono garanzie e poi prima bisogna pensare a cosa si vuole fare come stage. Per quanto mi riguarda le fotocopie al Beaubourg o servire il caffè in una casa editrice sono già obiettivi più che dignitosi. Portare le piastre alla Cinémathéque? Volentieri. Quest’ uomo deve avere veramente una cultura sterminata, gli parlo del mio progetto di memoire e mi cita Paolo Fabbri, non la persona più nota in questo mondo. Ha l’aria di una persona tranquilla, aperta, che ha speso molto per arrivare dov’è, ma non ha certezze assolute. Usciamo, passiamo in biblioteca, poi nella Corte d’onore della Sorbonne, quella con le statue di Pasteur, Hugo e le iscrizioni in oro. Pranziamo nella piazza della Sorbonne. Pieno di studenti, si sentono almeno cinque lingue diverse, cadono le foglie, una brezza da sinistra, un uomo che suona il sax. Ogni tanto sembra normale avere la felicità a portata di mano. Questo è il sunto del mio erasmus finora: panino, cielo blu, un po’ di nostalgia di fondo, quella malinconia che si prova a essere felici altrove, in assenza di qualcuno, foglie che cadono avvitandosi, musica, librerie. All’edicola sulla destra hanno copie del magazine litteraire -un’istituzione per gli studenti della Sorbonne- degli ultimi dieci anni; ne compro uno sugli scrittori di Parigi. Facciamo la nostra “iscrizione pedagogica” e riceviamo l’invito per un cocktail di benvenuto. C’è poi una vaga idea di andare a vedere la Saint Chapel, ma c’è troppa fila, si torna a casa. Mi sento come una persona che viene portata in un ristorante di quattro piani (pesce, carne, dolci, formaggi) con questa promessa: “puoi mangiare tutto ciò che vuoi per un’ora, poi resterai a digiuno per un anno”. C’è il dubbio su cosa fare, si devono prendere abbastanza cose per non sprecare l’opportunità e averne abbastanza per un po’, ma si deve evitare l’indigestione. C’è una sorta di rimpianto anticipato per ciò che non si è fatto. Mentre prendete quel budino osservate con la coda dell’occhio qualcuno che prende un tè e vi si brucia il salmone in forno. Il pane lasciato al primo piano indurisce mentre correte al secondo prima che le fragole finiscano. Se volete degustare, ma avete il tempo per abbuffarvi. Se volete rimpinzarvi, ma il tempo passa. Non so se rende l’idea. Per ora comunque mi riesce abbastanza bene il mestiere di vivere Parigi. Senza correre, ritornando sui propri passi quando ne vale la pena e passando oltre in altri casi.
Dimenticavo: prima di uscire dalla Sorbonne vedo anche un volantino che informa sulle possibilità di votare a Parigi per le primarie, ci andrò di certo, anche solo per vedere come si vota all’estero, quanta gente c’è, com’è l’organizzazione. Poi mi sembra che in Italia stia andando sempre peggio, Le Monde dice chiaramente che B. cambia la legge perché ha paura di perdere. Noi passiamo per quelli che glielo lasciano fare. Che vergogna.
La sera al Foyer c’è una “festa d’integrazione”, stile College. Sono stati fatti dei gruppi, ognuno deve preparare degli sketch stupidi con un tema particolare. C’è un aperitivo durante il quale il direttore cerca di fare l’autoritario senza riuscirci (“Qu-est-ce que c’est un foyer?”). Da ridere. Sospetti che abbia brindato in nostra assenza. Al mio gruppo sono toccate delle parodie di pubblicità, ma all’ultimo viene trasformato in un programma televisivo in cui ragazzi-fanno-domande-a-ragazze-poi-si-forma-la-coppia. Ho un repertorio di argot e grands mots per una vita. Nel complesso è divertente, quelli del secondo anno hanno diritto di fare scherzi e intervenire a piacimento. A metà serata mi tocca il compito di sfamare uno sparuto gruppo di Science Po. Del primo anno che ha avuto dei corsi di economia dalle 20 alle 22 (!) e ha saltato la cena. In futuro qualcuno di loro, diventato alto dirigente dell’ONU, si ricorderà del mio tonno e mi invierà una fornitura di aiuti umanitari a vita. Vedete dove può portare un piccolo atto di filantropia. Verso mezzanotte qualcuno inizia a finire sotto la doccia, molti fumano nel corridoio e l’aria diventa irrespirabile. Si chiacchiera un po’ fuori dal foyer e si va a dormire, scavalcando il povero compagno di stanza della schiera di quelli di S.Po.

Thursday, October 13, 2005

Vingt et huitiéme jour

Per chi si fosse perso l’ultima puntata c’è un nuovo attore. Diego, nel ruolo de “Il coloc”, figura tipica della condizione studentesca francese. Costui si sveglia alle 7, io mi rotolo nel letto una mezz’ora in più. La giornata è bellissima, ho un corso alle 5 e non si possono buttare via mattina e pomeriggio in una stanza di 20 metri quadri. Urge un piano. Intanto inviare una mail alla Ciné per dire che “Si, voglio venire all’anteprima del film di Cronenberg il 19”. C’è il mercato, visto che Lipovetsky non vuole proprio farsi leggere decido di comprare qualcosa e andare a studiare al Jardin du Luxembourg. Passeggio un po’ tra i banchi, verso mezzogiorno iniziano le offerte al ribasso perché per l’una e mezza qui chiude tutto. Mi offrono un chilo d’uva a 1,90. Continuo e compro una fetta di Fromage de tete. Che detto cosi sembra una cosa uscita da un film horror, lui che trita la famiglia e ne fa cibarie da mercato, ma è una prelibatezza, una sorta di patè di carne. Torno indietro, ripasso al banco dell’uva e lei si ricorda che ero già passato e mi dice che l’uva è buonissima e ho già sentito che costa 1,90. D’accordo. Il prezzo è al chilo e almeno un chilo ve lo portate a casa, garantito. E’ un’uva dai chicchi tondi e piccoli, dolcissima. Prima di pranzare vado in piscina, anche se forse faccio più sport a salire e scendere dal quinto piano. Pranzo con il fromage, un po’ di insalata e del pane tostato comprato in blocco per fare i panini. L’uva la tengo per il Luxembourg, dove mi siedo su una di quelle sedie verdi con i braccioli, leggendo il libro e facendo cric croc con le foglie cadute. C’è molta gente che passeggia. Davanti a me sulla destra una massiccia signora di mezz’età vestita di viola e sulla sinistra una ragazza in jeans e maglietta. Entrambe leggono di spalle, vicino a un albero. Mi ricorda una foto vista alla Tate di una panchina della Brasserie Lipp su cui erano sedute due donne, con almeno cinquanta anni di differenza, che leggono. E’ del 1969 e l’ho ritrovata-ne sono fiero-. E’ un capolavoro, il modo in cui la signora che legge Le Figaro guarda la ragazza in minigonna. Il mio soggetto è un po’ diverso, ma in uno scatto si coglie cosa è cambiato nell’atteggiamento e nella moda tra una generazione e l’altra, tra un’età e l’altra. Gambe accavallate e borsa appesa allo schienale l’una, gambe su una sedia e borsa per terra l’altra. Ogni tanto c’è un po’ di vento che fa l’effetto palle di vetro con le foglie secche -vere- al posto della neve finta. In rue Saint Jacques ho scoperto un bar per studenti che ha espresso italiano, mi ci vuole prima della lezione. E’ davvero buono. Il ricordo dell’odore del caffè si acquisisce con imprinting in Italia, dovunque lo bevi dove c’è caffeina c’è casa. Sul muro una foto dei caffè sotto i portici di Piazza San Marco. Non esageriamo. Alle 17 inizia il corso di semiologia, alle 18 finisce perché c’è una riunione dei professori. Nel frattempo si ha giusto il tempo di riempire una griglia terrificante con i tratti +\- per analizzare un corpus. Siamo un pezzo indietro. Almeno parlo un po’ in francese e faccio un po’ di lessico. Ogni lezione inutile qui è comunque un corso di lingua, si può sopportare. Ritorno al foyer in tempo per cenare con gli altri, poi esco per andare alla Ciné. Per la prima volta viene anche Sonia. Il film è “The man who would be king” di John Huston, con Sean Connery e Michael Caine, tratto da un racconto di Kypling. Devo aggiungere altro? C’è l’India, un po’ di colonialismo, Alessandro Magno. Loro vogliono conquistare un paese sopra l’Afghanistan: “Se ce l’ha fatta un greco (Alessandro) possiamo farlo anche noi”. Fa veramente ridere, loro che cercano di insegnare le strategie e la disciplina militare a gente cresciuta tra le capre. Connery diventa un dio, Caine torna a raccontare la storia finita male. Un classico dell’avventura degno del miglior Indiana Jones. Anche perché personalmente preferisco Caine e Connery a Harrison Ford. Se non avete mai sentito la “sh” scozzese di 007 bisogna che troviate un film in lingua originale. Rientro a mezzanotte quando il coloc dorme già. Nessuno svegli il coloc, lo si scavalca e si va a dormire.

Vingt et septiéme jour

Si on a rien à raconter, c’est toujours mieux de le faire en français. Alors on va essayer ça. Je me réveille à 8h, sûr que le cours commence à 9h30. Lorsque je vais préparer mon sandwich (deux tranches de pain avec brie et saucisson) il m’arrive une illumination : c’est à 9h, tu es arrivé à 9.30 la semaine dernière parce qu’il y avait la grève ! Le sandwich c’est déjà en préparation, trop tard, il faut se dépêcher avec le metro. Pour être plus rapide aux changements je monte du côte plus proche à la sortie, à l’allé c’est toujours la queue. En 20 minutes -c’est le record mondial- j’arrive à l’Uni, la salle c’est encore fermée, le professeur c’est dehors. La séance c’est celle de Sociologie des sociétés européennes, le cours le mieux jusqu’à aujourd’hui. On parle de la crise de tous les Etats-nation en Europe de le déroulement des années ‘80. Après j’ai le cours de M. Guillemard sur l’action publique. Elle parle de l’examen de fin de cours et dit qu’à eu un mail qui le proposé un travail d’application des théories de Padioleau à un referendum italien. C’est la mienne. Elle dit que bien sûr ça c’est une bonne idée, que le bout de l’Uni c’est de nous faire travailler avec les utiles qu’elle nous donne et que tout le monde devrait trouver quelque chose comme ça pour son dossier. Rien de plus facile. En plus elle parle de son équipe de recherche qui travaille sur la santé des personnes âgées entre Paris et N.Y. J’ai déjà donné mon mail, j’attende pour aller à la réunion, la chose me semble intéressant : je me voit déjà à prendre un té avec le vieux de Paris en discutant du system médical français -mais je pense que le boulot sera un peu différent de ça-. L’après-midi c’est à étudier dans la bibliothèque de Sciences Sociales, rien d’étonnant. Pour se reprendre avant le cours sur l’acteur stratégique -nouveauté- on mange, avec Sonia, un gâteau chez une magnifique pâtisserie viennoise en rue des Ecole des médecines. Le mienne c’est une fine couche de pâte doux avec un quintal de chocolat au café comprimé en un centimètre, moue mais pas liquide. Le cours sur l’acteur stratégique n’est pas mal du tout, j’ai toujours aimé les théories qu’expliquent l’action humaine en termes de stratégies et calculs, au moins on a beaucoup d’exemples très intéressants. Je voudrais faire un exposé sur Luther Blisset, mais c’est dur de lui expliquer c’est quoi. Le cours termine à 7h 30, dehors c’est déjà sombre, je retourne chez moi est je suis trop fatigué pour faire quelque chose d’autre que manger, lire et écrire ce bordel de blog. Mon colocataire est arrivé aujourd’hui, il s’appelle Diego, il è Franco-Italian, mais surtout franco, il étudie à SciencePo. et vient de la Loraine. Beaucoup de français dorénavant, tant mieux.

Wednesday, October 12, 2005

Vingt et sixième jour

Si può essere brevi per una volta? Corso alle 8.30. Questa volta mi sveglio bene, anche se fuori è sempre buio. La lezione scorre senza problemi, si parla di ideologie, di concetti e nozioni, di Marx. Studio fino alle 14 un bel libro di Lipovetsky e poi la bella giornata ha la meglio. Bella giornata significa venticinque gradi, non “non piove”. Ho un luogo sulla mia agenda che devo trovare. Si parla di marmellate, cioccolate, caramelle in una drogheria del 1760. Si può provare, a Parigi ci sono diverse cioccolaterie e boulangerie da sogno, ma la fonte dell’informazione mi dice che questa sia speciale. E cinquanta per cento delle volte ci si può fidare, nell’altro cinquanta è addirittura meglio del previsto. Non so se posso dirvi il nome e l’indirizzo, troppo facile leggere un blog e avere tutta la mappa -e la pappa- pronta. Facciamo una cosa un po’ calvinista: io vi salvo dalla dannazione eterna, però dovete metterci del vostro, operare, ben riuscire per dimostrare la vostra predestinazione. In breve: rivelo la strada, poi se avete voglia di arrivarci e vagare un po’ per trovarlo, e se proprio non vi ripugna il bello o non vi siete appena scolati un litro di Calvados lo riconoscerete, allora forse ve lo siete meritato. In tal caso evitate di sbandierare la scoperta. Ogni persona a cui lo dite deve impegnarsi a trovare un posto migliore e segnalarvelo. Questo vale anche nei miei confronti. E’ una sorta di catena di santantonio degli amici dello zucchero. Per una volta non si cerca di salvare dalla morte per lapidazione con lapilli bollenti un coniglio ipovedente della nuova Guinea. Assolutamente necessario aggiungere “Questa è vera, non è come la altre catene”. D’accord, arrivate in rue du Fabourg Montmartre e qui vi abbandono. Il posto è un miraggio, non è detto che esista la prossima volta che ci tornerò. Fa angolo, come ogni negozio di leccornie che si rispetti ha due vetrine. Vende anche vini costosi, cioccolate artigianali, ogni tipo di biscotti e Marmellate. Sono barattoli etichettati e “compilati” a mano con il nome della confettura. Chiedo se li fanno loro, glieli portano degli artigiani. “Artigiani” vuol dire che le signore che fanno le marmellate poi portano qui i barattoli. La signora vi consiglia mentre voi cercate di perdere tempo per guardarvi intorno, ma è un’overdose. Sembra di essere in una scenetta delle sette piccole differenze con un minuto per risolvere tutto. I colori si accumulano, i nomi si confondono mentre lentamente chiedete ciò che volete. Le permanenze sono concesse agli abituées, voi ancora non siete degni. Pagare è un piacere: c’è l’uomo nel gabbiotto con la macchinina a mano che vi fa il conto e vi dà il resto attraverso il vetro. Un tempio del dolce. Tutto smaltato di verde con numeri dorati, come la cioccolateria in rue Saint Péres, ma molto più autentica e gratificante. Me ne vado con una marmellata dicendo che “per oggi” è tutto. Sono un po’ stordito. Risalgo fino a Notre Dame de lorette, giro in rue des Martyrs. Tutto il quartiere è molto bello, boulangeries come se piovesse, un piccolo negozio di modellini d’automobili. Risalgo come un salmone verso Montmartre, è un ottimo modo per arrivarci, si sbuca in boulevard de Clichy, a un passo da Pigalle. Mangio una quiche seduto su una panchina e decido di salire un po’ verso il Sacre Coeur. Prima di arrivare in rue Lepic incontro almeno dieci sexy shop e una ventina di locali a luci rosse. Non sono certo un puritano, ma come se passate per una via piena di macellerie ne uscite come se aveste mangiato una fattoria anche qui dopo un po’ da’ la nausea. Rue Citè du Midi è un angolo di mediterraneo a Parigi, veramente una cartolina, anche come dimensioni. Oggi mi sento uno skilift: risalgo rue Lepic e non c’è bisogno di aggiungere niente, lo sapete già. Una stradina che si avvita sulla collina di un paese. Sole a picco, cammino in maglietta. Cerco, ma non trovo il caffè di Amelie, ridiscendo verso place des Abbesses e prendo la metrò. Doccia ristoratrice, un po’ di appunti e la cena. Uscire poi sarebbe chiedere troppo, scrivere è già abbastanza.

Monday, October 10, 2005

Vingt et cinquiéme jour

A long dimanche de fiançailles. Dovete sapere che la prima Citroen DS è stata prodotta nel 1955. Quindi il 2005 è il cinquantenario. Se siete il club dei maniaci delle DS dove sognereste di fare la vostra sfilata di 1600 vetture? Sugli Champs Elysée, è ovvio. Fate tutte le richieste in grande anticipo. E’ il jubilee, andiamo. Va bene. Incrociate questi tre dati: Champs Elysée, 1600 DS, giornata stupenda (cielo blu e più di 20 gradi). C’ero?
Cinquanta anni precisi, e non quest’estate, non l’anno prossimo, non a Le Havre, Ici-maintenant. Oggi, ora, qui. Mi sembra di sognare, prima o poi qualche invidioso mi avvelenerà.
Arrivo alle 10 precise, c’è già una doppia fila sugli Champs. Mi posiziono al centro, sull’attraversamento pedonale. Quando c’è un evento tutti si guardano in giro per cogliere i primi segnali e per capire con chi lo stanno condividendo. Perché se uno crede sia un affare intellettuale e poi vede una banda di ragazzini ciccanti allora c’è qualcosa che non va. Aspettiamo. Ogni volta che passo per gli Champs non posso evitare di ricordarmi che qui Hitler ha fatto la sua parata. Su questo suolo sacro lui è passato festeggiando. Certo, ne ha fatte di peggio, ma per me è come se un passante si mettesse a fare smorfie sulla pista mentre si gira l’ultima scena di Casablanca. O se qualcuno giocasse a freccette con il S. Sebastiano di Mantegna. Comunque è lontano nel tempo, e oggi da qui si vede l’obelisco di Convention. All’improvviso tutti iniziano a correre verso la via parallela. Il defilée delle dee è cominciato dove nessuno si aspettava, arrivano da una via secondaria, percorrono metà rotonda dell’Arc de Triomphe è scendono per un’altra via. C’è molta gente: ragazzi, genitori con bambini del tipo “Quella era la macchina di papà” sottinteso “che ho venduto e adesso varrebbe un sacco di soldi”, nostalgici. Le macchine sono davvero per tutti i gusti, dalle normali grigie a quelle rosa o adattate per la corsa. Ce ne sono un paio della polizia, due dei pompieri e un paio allestite da ambulanze italiane. Si cerca l’AVIS del Comune di Esanatoglia.
La cosa più bella è vedere chi accompagna i guidatori. Ci sono quattro categorie. Il gruppo di fanatici, amici dotati di tutti gli accessori, con nomi sulla carrozzeria, bagagli sempre pronti per i raduni e officina a casa. Ci sono i padri con i figli che guidano, probabilmente hanno ereditato la macchina e il compito di sfilare, è come la prima volta che si cavano le ruotine alla bici e si inizia a pedalare da soli, oppure quando ti insegnano a farti la barba e ti regalano un rasoio (ma ormai con quelli elettrici non serve una gran maturità). C’è poi la famiglia, tipo il marito che ha speso la sua vita per la macchina, la moglie che pazienta, che ogni tanto vorrebbe fare un viaggio lontano “ma no, non si può la macchina si stanca” e i bambini che devono pulirsi e fare la doccia prima di salire. Oggi è il loro trionfo: “Vedi, tu che l’hai sempre trattata male, ma se non fosse per lei oggi non sfileresti sugli Champs Elysée”. C’è anche la coppia ancora On the Road, conosciuti in viaggio e andiamo avanti così. Gli originali hanno tanto di autoradio con “Ooh Champs Elysée”. Una DS famigliare ha deciso di smettere il suo servizio oggi, procede a spinta.
C’è una coppia di vecchi francesi che hanno una parola per ogni autista, la lingua non importa. Lui ogni tanto l’abbraccia, lei fa smorfie e gli pesta i piedi con le scarpe da tennis. Non finisce più, 1600 dichiarate e 1600 sono. Se ci pensate sono arrivate tutte qui dall’Europa sulle loro ruote. Ah le macchine di una volta. Mi siedo su una panchina, un bambino e una bambina che giocano a "Pierre feuille ciseaux".
Me ne vado verso mezzogiorno, mangio un panino nel giardino degli Champs, prendo un buon cafè -ma le condizioni di assunzione modificano il giudizio- e vado alle Tuilleries. Bambini che giocano, un gruppo di Scout, la Tour Eiffel da una parte, il Louvre dall’altra, panchine, alberi arancione. Alle 13.30 mi incontro con Sonia e una ragazza spagnola per andare alla Fiac, expo-mercato di arte contemporanea. Per farla breve arriviamo là, facciamo la fila, chiediamo il biglietto ridotto e ci dicono che è solo per studenti d’arte. Io studio, anche, l’arte, ma non basta. Sarebbero 17 euro, no grazie. Allora decidiamo di andare agli Champs de Mars, davanti alla Tour Eiffel, vogliamo riposarci un po’. Arrivati là stanno tendendo del nastro bianco-rosso. “Ci sarà qualche visita importante” dicono loro. Scettico parlo con il poliziotto io. “Il y un alarm à la bombe monsieur, desolé”. Cioè lui è desolato per me perché non possiamo andare a stenderci sul giardino perché c’è stato un allarme. Ovviamente tutto falso, telefonata anonima e tutto il resto. In ogni caso la polizia è molto cortese e tutti collaborano senza panico, per la prima volta vedo la Tour senza turisti.
Che fare? Andiamo a Montmartre. Qua nessun allarme, bambini che si rotolano sull’erba morbida e gente che legge. Mi stendo sulla “pelouse au repos” (mio il repos) leggo un po’ e faccio anche un pisolino. Cielo blu e venti gradi, pratone e Sacre coeur. C’est la vie. Dopo un po’ loro se ne vanno, resto ancora mezz’ora poi torno a casa, mi cambio, mi riposo, scrivo ed esco di nuovo. Cena a base di fonde con il gruppo italiano di ieri. Una bella serata, ci si scambiano informazioni e si mangia bene. Certo se fossimo in montagna e fosse freddo vero sarebbe meglio. La raclette è un cuneo di formaggio che viene sciolto da una resistenza montata su un supporto. Si progetta un modello artigianale con piastra per capelli al posto della resistenza. Sono sicuro che funzioni. La fondue al chevre è da peccato di lussuria, la reblochonnade sparisce dopo dieci minuti. Finiamo tutto a fatica, lavorando di forchettine, pezzetti di pane, affettati, patate. Il posto si chiama “Le grand bistrot”, ma se andate dalle parti di rue de la Huchette e Saint Séverin ne trovate ovunque. Questo è buono e ha anche (pregio o difetto) gli animali impagliati al muro. Per digerire ci vorrebbe un concentrato di solventi chimici. Per pulire le pentole (?) tanta pazienza. Rientro da solo e dormo come un sasso savoiardo.

Sunday, October 09, 2005

Vingt et quatriéme jour

Avete presente Atlantide? Io ci abito. Il mondo fuori di qui mi è estraneo, e allo stesso modo voi dite che il mio non esiste. Io ho branchie, voi orecchie. E’ dura comprendersi. So che per molti sarebbe difficile vivere qui, e oggi ho capito che per me sarà lo stesso ritornare in superficie, con tutta quella terra e quei marciapiedi che interrompono il cammino. La vita quotidiana qui è così banale, non si può rinunciare a niente, ogni desiderio ha un nome, non un orario. E’ come giocare a bowling con le sponde. Per esempio il sabato mattina vi svegliate con le voci di un mercato, una di quelle cose che Pennac sa descrivere bene. L’arabo sarebbe più utile del francese, questo è sicuro. Avete l’idea di gente che sia arrivata all’alba per prendere i posti migliori, e si sia annunciata dal fondo della strada, regalando uva a chi si era già alzato o doveva ancora ritornare. Prima andate in piscina, una ventina di vasche, giusto per svegliarvi in un materiale diverso che vi scivola addosso. Poi uscite, e vi sembra così normale ormai dire “une baguette et un pain au chocolat, une saucisse et une pointe de brie”. Comprate anche dell’insalata e una zucchina. Non avete fatto ancora colazione, avete una baguette, c’è un banco delle ostriche. Lui è così gentile, gli chiedete di assaggiarne solo un paio, ve le descrive: preferite quelle piatte o quelle un po’ più grasse, corpose? Non lo so, sono arrivato da poco, è un esperimento, mi fido, facciamo una e una. D’accordo, ah l’Italia, le ostriche ci sono anche là, costano meno, ma è un’ altra cosa. Ne apre una, fa leva con il coltello poi passa sotto per staccarla e liberare il succo. Va risucchiata, è salata, più dura sui bordi e gonfia al centro, sa di fresco, di appena arrivato, di non lavorato. Arriva la seconda, polposa, si mastica un po’, si apre in bocca, il sapore resta più a lungo. “j’aimè ça, comment s’appelle?” “Vous demandè la speciale”. Ah ecco, è la speciale. Quanto le devo? Fa segno di no. Davvero, insisto. “C’est bon comme ça monsieur”. Non mi interessa non pagare, è il modo, ve le offre perché ne ha piacere, non vi chiede di tornare, non vi dice che pagherete le prossime. Comunque non pensavo fossero così buone, me ne vado felice. Qui i giornali sono gli stessi il sabato e la domenica. Il motivo è sospendere il tempo, godersi una giornata, siamo comunque in Francia, savoir vivre e tutto il resto. Salsiccia olive, pomodori e pasta sono per il pranzo italiano con i tedeschi: Robert e Johannes. Qui altrimenti si va a sughi pronti: “la bolognaise”, ma vi prego. Mo vieni ben qui che te lo do io il sugo. Preparo delle penne salsiccia zucchine e pomodoro che se le sogneranno per un po’. Robert aggiunge due meloni. Sarà per i fondi europei per l’agricoltura che si mangiano, ma frutta e verdura sono veramente a buon mercato.
Al pomeriggio io e Johannes ritentiamo la fortuna: a Saint Sulpice c’è la bourse aux velo: un mercato di biciclette usate. Ci andiamo, è a un passo da Saint Germain de Pres. Serve dire che la piazza è bellissima, circondata di palazzi, chiesa e con fontana al centro? Le bici sono care anche qui, in più bisogna aspettare un po’ per avere accesso alla zona di vendita. Ma è bello esserci, fare qualcosa di poco turistico, spendere un pomeriggio per vedere delle bici. Ne proviamo alcune, parliamo con un signore che vende un bici da corsa del ’63 e ci dice che da Decathlon la più scarsa costa 2500 franchi, pari a non sappiamo quanto. Chiacchieriamo un po’, passiamo per il jardin de Luxembourg, apprezziamo l’opera dell’autunno. Qualcuno ha lasciato intenzionalmente dei mucchi di fogli, dei bambini ci saltano dentro, siamo in un fumetto. Ci diciamo che non è difficile fare i genitori a Parigi, quando al sabato pomeriggio puoi portare tuo figlio a giocare con una barchetta a vela nel giardino del Senato. Altro che tanti discorsi sulle “istituzioni vicine ai cittadini”. Mentre attraverso in diagonale la piazza centrale mi sento bene, il cuore è leggero, non ho preoccupazioni, le nuvole sono di cotone. Con tante cose positive dimenticavo: la giornata è stupenda: i colori dell’autunno e il clima della primavera. Alle 18.15 siamo al foyer. La metro è piena, sono usciti tutti oggi. Alle 18.30 esco di nuovo, alla Cinémathéque c’è “Hanne and her sisters” di Woddy Allen. Leggo un po’ fuori prima di entrare. Che dire del film? Dopo dieci minuti voglio gli occhialoni di Michael Caine e le paranoie di Woody Allen (che teme di avere un tumore perché ha una macchia nera sulla camicia). Quando corre fuori dall’Ospedale saltando, poi si arresta di colpo mi fermo anche io. Capisco quanto mi sarà difficile disabituarmi a tutto questo, a quello che vuoi a ogni ora, dietro l’angolo, a questo clima rilassato, ma frenetico, al nessuno che fischia se la pellicola ha dei problemi. Altra scena da storia del cinema: lui che appoggia sul tavolo alcuni oggetti religiosi -vuole convertirsi al cristianesimo, poi penserà ai krishna- insieme a un pacco di pane da toast e un barattolo di maionese. E’ pop art cinematografica.
Esco e vado a incontrare due amici italiani che sono qui ospiti di un terzo, ci sembra così strano dirci “ci vediamo stasera” a Parigi. L’appartamento è in rue bergere, in un palazzo affittato da un italiano agli italiani, clima poco internazionale, ma buono per fare due chiacchiere. Alla fine ci si raduna in una quindicina, si propone di andare in un pub. Davanti al dilemma: pub e perdere l’ultima metro scendo e torno a casa.

Saturday, October 08, 2005

Vingt et troisiéme jour

Venerdì. Una sola lezione, sulle politiche economiche per i beni culturali. La cosa mi interessa, anche se l’esempio della Francia non è proprio uno standard. Da noi parlare di patrimonio significa parlare di oro, denaro contante, talleri. Qui si chiamano così anche i giardini, non a torto. Il riassunto della lezione è questo: negli anni 60 viene creato un ministero per i beni culturali e si inizia a capire che ci si può guadagnare, in più la Francia e i francesi comprendono che la cultura è il loro valore più grande. Perché invece in Italia abbiamo solo rovine. Poi negli anni ’70 si lascia un po’ perdere, poi arriva Mitterand e sono rose e fiori, obiettivo dell’ 1% del Pil per la cultura, progetto Grand Louvre, Museo D’Orsay, Beaubourg (a fine ’70 questo). Noi ridiamo con Totò che vende la fontana di Trevi, ma poco ci manca che l’appaltiamo e mettiamo una gettoniera per far partire l’acqua. Ogni tanto, spesso, uno pensa che sia un bene che molti dei nostri quadri e delle nostre sculture siano qua, sono in buona compagnia e in buone mani. Per rimanere in campo economico poi vado in banca, è arrivata la mia carte bleu, sono un ricco possidente con fondi all’estero, è ufficiale. Con Sonia mangio in un chiosco libanese, lei è di origini palestinesi e un po’ ci capisce. La cosa più buona, come sempre, sono i dolci, Baclava come se piovesse, Kadaif e tante altre cose dal nome complicato. In un negozio per tre giorni c’è la festa della cassoulet, la zuppona di crauti e salsicce, peccato non averlo visto prima. Comunque la parte alta di rue Saint Jacques, quella dopo il Panthéon è un gioiello, piena di ristoranti e bars à vin, segnatevelo. Al pomeriggio si studia e si va a prenotare l’albergo per la sorella, trovato uno a due passi da Republique, ovvero a cinque passi dal Marais e a dieci dalla Senna.
La sera siamo in cinque a uscire: io, Johannes, Robert, Guillaume e Naima. Ormai ci si vede direttamente all’uscita e si decide all’ultimo dove andare, ne abbiamo di tempo, non serve pianificare. Ogni tanto capita di ridere incrociando turisti che camminano veloci con una cartina. Ci sembra ancora surreale pensare di stare qui fino a giugno. Comunque per la serata io spingo per Place de la Contrescarpe, il gruppo se lo merita. Non tutti sono convinti, non è come dire “Quartier Latin”, è un po’ meno nota questa. Ci andiamo. La popolazione è studentesca e molto francese, tutti sono impressionati dalla bellezza del posto. E’ per ora, lo era già, il mio angolo di Parigi preferito. Un po’ Marais, un po’ latino, ma a un passo dal Panthéon, una succursale. Camminiamo un po’ fino a Saint Geneviene (non ho foto, ma rimedierò) e giriamo attorno al Panthéon, provo a spiegare Foucault in francese. Ne hanno sentito parlare. Rue lacepede è piena di locali, più indietro c’è una casa gialla con cortile interno e pozzo, c’è anche un’insegna, bisogna venirci di giorno per capire cosa fanno, sembra una villetta italiana. Troviamo un locale orientale con tavolini bassi, thè alla menta, shisha, cuscini. E’ pieno, segniamo il nome per la prossima volta. Ci sediamo a un cafè irlandese in place de la Contrescarpe a bere un bicchiere di vino. Parlo un po’ con Johannes, che studia storia e prepara una tesi sull’amministrazione di Cartagine, cerco di spiegargli cosa faccio io, ma non è così semplice. Questa sera si ride molto con Robert per la parola “truc” che in francese è un tappabuchi eccezionale, sostituisce ogni cosa. E ridiamo perché non appena uno esita a dire una parola si pensa che utilizzerà questa. Si ok non è che faccia molto ridere raccontato così, ma se siete a Parigi con un bicchiere di Bordeaux e per domani non avete problemi, non dovete preoccuparvi del lavoro, della famiglia, dei soldi, allora siete pronti a sorridere alla prima foglia che cade, fidatevi. Mangiamo il nostro pane bianco, come si dice qui.
Ritornando a casa abbiamo tutti fame, ma non c’è tempo, riusciamo a prendere l’ultima metro, salutiamo gli altri che rientrano con noi e verso l’una siamo tutti nelle nostre tane.

Friday, October 07, 2005

Vingt et deuxième jour

A rebours. Vado a dormire dopo aver ascoltato del Jazz, il posto è lo stesso della prima sera: Cafè La Fontaine, stesso gruppo: Paceo Jam. Questa volta sono accompagnato: Robert, un ragazzo marocchino con il nome troppo difficile, tre ragazze francesi di cui una della Reunion, Naima. I francesi sono ambitissimi per fare conversazione. Lei studia a Science Po e con me parla di politica. “Si, ho visto un documentario su Berlusconi”. E’ sicuramente peggio di così. C’è un motivo perché sono di nuovo qui: abbiamo cercato altri bar, ma l’entrata era troppo cara, così ho proposto questo di cui ero sicuro, buon ambiente e bella musica. Prima siamo passati per place de la Republique, circondata da vie piene di bar e ristoranti di ogni parte del mondo, ma abbiamo già mangiato al Foyer, alle 7. Sono arrivato all’ultimo, dopo aver letto Deleuze e fatto un po’ di fotocopie al Centre Pompidou, veramente un ottimo posto. Tra qualche tempo, mi dico prima di entrare, ci sarà la coda di studenti che vengono qui a preparare gli esami. E’ una parte della biblioteca, come ogni elemento funzionale dell’edificio di Piano anche la coda è fuori, si racconta di attese di ore prima di entrare. Per ora invece è semplice, e si trovano anche tutti i libri. Si può fare una pausa per leggere i giornali, bere un pessimo caffè, guardarsi un po’ in giro. I tubi sul soffitto sono blu, tutti lavorano, vanno e vengono con libri e riviste. Sono arrivato qui dopo aver cercato un albergo per sorella+amica che arrivano il 14. Vicino a Place de la Republique ce ne sono diversi, la zona è buona. Il primo è il meno caro, ma è una cosa a conduzione famigliare cinese, corridoi stretti, stanza vuote, classica copertura di affari loschi. Fortunatamente ce ne sono altri. Ne trovo anche uno centralissimo, in rue des Ecoles, ma è abbordabile solo se si sceglie l’opzione “niente bagno in camera”. Cercherò altro e deviderò domani. Prometto che invece domani non lo farò, ma anche oggi, prima di studiare sono andato al cinema: Broken Flowers di Jim Jarmush, con Bill Murray. Non so quanti di voi se lo ricordano vestito da Ghostbuster, ma è inziato così, e già era il mio preferito. Poi un lungo declino e da Lost in Translation è uno degli attori più ricercati, a ragione. Come fa le facce indifferenti, apatiche e ordinarie lui non le fa nessuno. E poi al cinema avere delle rughe è sempre una risorsa in più, aggiunge potenzialità espressive, guardate Nicholson o Tom Waits. Il film mi piace molto. Un road movie sulle tracce di un padre. Classico. Solo che questa volta è il padre che parte alla ricerca di un figlio che non conosce. Gli è arrivata una lettera anonima e adesso lui passa in rassegna le sue compagne di vent’anni prima, si presenta con un mazzo di fiori e cerca di capire se siano loro le mittenti. Si ride molto, ma non solo. Belle le musiche, e attuale il modo di viaggiare. Tutto prenotato via internet, carte di credito, mappe stampate al computer. Mooolto meglio di sideways. Jarmush ha il feticcio dei colori che si ripetono -qui il rosa- e una scelta maniacale per i tavolini. Domani pausa film, ma a ottobre esce il nuovo Tim Burton, Oliver Twist di Polansky, I fratelli Grimm di Gilliam, Don’t come knocking di Wenders... Perché alle 11? Costa meno. Prima di andare al cinema mi sono svegliato e come sempre ho fatto la mia colazione.

Thursday, October 06, 2005

vingt et unième jour

So che è monotono, ma ogni mattina comincia con la sveglia. E oggi mi concedo un’ora in più, il corso è alle 11. Il corso è anche piuttosto noioso, lo stesso della settimana scorsa sulla comunicazione, si parla un po’ delle agenzie di stampa (Havas, Reuter …). Il pranzo di oggi è più remunerante: l’ho comprato al mercato davanti a casa, da un tipo meno francese di me che vendeva specialità austriache. Un petit pain au fromage e un’ escargot, quelle deliziose rotelle con i semi di papavero.
Il pomeriggio passa nella biblioteca a riorganizzare ancora una volta il piano di studi e leggere saggi. Ho sempre paura di non fare abbastanza cose al primo semestre e ritrovarmi al secondo col fiato corto. Cioè non voglio dover rinunciare a cinema, conferenze, musei perché ho i tempi stretti all’Università. Così per non rischiare dopo mi sovraccarico in anticipo e ogni tanto mi manca il fiato. Non è che in erasmus siano sempre violette e blue lagoon. Ho trovato una bella metafora per farvi capire. Avete presente quei dipinti di Dalì con gli omini sostenuti da decine di forcole? Ecco, quello succede quando si sta a lungo in un posto: si mettono radici, si acquistano sostegni, dove ci si muove ci sono amici, rassicurazioni. Ci si sente riconosciuti, nel senso che gli altri danno un senso a quello che facciamo. Andarsene significa far cadere i sostegni. Certo, l’erasmus è un “andarsene” iperprotetto, non voglio fare il pioniere, in realtà i bastoni si trasformano in elastici, in sostegni a distanza che possono essere recuperati a ogni momento. E in più il fatto di scrivere ogni giorno è un buon ricostituente, mi sembra di produrre un discorso indiretto su di me e mi serve a capire cosa faccio.
Siamo arrivati alle 17. Un corso di semiologia abbastanza basilare, per tenermi in allenamento e lavorare su dei corpus francesi, vedere se più o meno si dicono le stesse cose. Arrivo a casa alle 7.40 e ho richiesto una “boite” per la cena. Il sistema è geniale: se non si arriva in tempo per cena ci si può far lasciare un tupperware in cucina con il proprio pasto. Quando si arriva lo si scalda, mangia e digerisce. Dopo cena si fa un giro fino a place de la Bastille: io, Robert, Guillame (compagno di stanza di Robert), due ragazze americane e una armena. Si chiacchiera un po’, le americane hanno il vizio di passare all’inglese senza soluzione di continuità, tanto lo conosciamo tutti.
Oggi è cominciato il ramadam, al Foyer c’è gente che mangia tardi e fa colazione alle cinque. Scherziamo con loro, scherzano con noi. Questi musulmani integralisti, fuori dall’Europa!

Vingtiéme jour

/Grève/ Questa parola francese che in italiano significa “sciopero” ha in realtà per i parigini un significato simile a quello della stessa parola pronunciata senza accenti: /greve/. I macchinisti e gli autisti della RATP detengono il potere di vita e di morte in una città dove i mezzi pubblici sono fondamentali per ogni spostamento. Uno sciopero della metro spesso comporta uffici chiusi per mancanza di personale, lezioni sospese, panico generale, assalti ai pochi krumiri che diventano subito eroi nazionali. Pianifico malissimo la cosa: decido prima di arrivare in bici a Nation e prendere la linea 1, abbastanza garantita, o a Bercy a prendere la 14 che è sicura (dacchè manca di autista). Poi calcolati i tempi decido di andare direttamente a scuola in bici. Scendo a prenderla, inizio a salire, la ruota è a terra. Ripongo la bici. Vado a piedi verso Nation. Non ho preso la carte orange. Torno in camera (quinto piano quinto) discendo maledicendomi. Attraverso la strada: miracolo! L’autobus sta arrivando. Lo prendo e arrivo in classe con soli venti minuti di ritardo, a lezione ancora non iniziata perché si aspettano i ritardatari da sciopero. Le prime due ore passano bene, questo sociologie des sociétés européennes è molto interessante. C’è solo un problema: il prof. parla a voce talmente bassa che se prima di entrare avete ascoltato della musica per i primi dieci minuti non sentite. Un film muto, lui muove le labbra, ma voi non sentite, davvero. Le altre due ore saltano perché non arriva la prof. Ovviamente la prima volta che c’è un momento libero si conosce qualcuno. Una ragazza giapponese e un ragazzo francese, si parla un po’ dell’università in generale e ci si scambiano le mail per accordarci sull’esame, un’ esposizione orale da organizzare in piccoli gruppi. Poi mangio un pessimo panino e vado da Gibert and Joseph, La Libreria. Cinque piani di morbidezza. Dopo lunghe ricerche scopro che al quinto piano ci sono i “livres de poche”, un istituzione francese che raggiunge il suo apice a Parigi. In pratica libri vecchi o usati, o anche solo minimamente rovinati che pagate fino a tre, quattro volte meno dei libri nuovi. E libri buoni, classici e novità, non Liala ecco. C’è una distesa di libri di Calvino, un Baricco, un Camilleri, uno Svevo. Per sei euro compro una grammatica francese e due libri di Le Cleziò (e qui vi sfido) che da noi è come trovare un filantropo in borsa, ma ha trenta libri all’attivo. Passare per la sessione filosofia è sempre un rischio e mi rimane attaccato “L’image-mouvement” di Deleuze in offerta. A piano terra trionfo del fumetto, ma re\de-sisto ed esco. Il resto del pomeriggio è in biblioteca, a leggere un bellissimo saggio di Ulrich Beck, tradotto in francese. Molto pessimista sulle condizioni di lavoro in Europa. Il livello medio di istruzione e di benessere si è alzato, sempre di più si alza anche il numero di chi fa l’esperienza della disoccupazione. Studiare tanto non basta più, ci vuole altro. Non esiste più una classe sociale colpita dalla disoccupazione, né quindi una solidarietà di gruppo su questo tema, non è più argomento di sinistra, il disoccupato può partecipare alla manifestazione, per sentirsi parte di qualcosa, e poi votare a destra. Così la disoccupazione diventa un fenomeno privato, vissuto come uno scacco personale, si ha un’individualizzazione dell’alienazione che riguardava la “classe operaia”. Ritornando al Foyer non ho particolari problemi con la metro, a parte un po’ di ritardo. Il mio coloc. non è ancora arrivato e festeggio facendo una doccia. Non che mi dispiacerebbe avere un compagno, francese, con cui parlare, ma ci sono alcuni contro. Tipo non preoccuparsi di fare rumore quando si rientra in camera, niente divisione spazi, possibilità di girare in mutande, di guardarsi un film a qualunque ora, di aprire-chiudere-accendere-spegnere a piacimento ogni cosa, non dover dribblare altrui scarpe, vestiti, corpi. Però se poi è simpatico e mi fa parlare molto va bene. Anche se per ora comportarmi come un gas mi piace.
A cena siamo in dieci a non esserci iscritti, e tutti pensavamo che sì. Allora come si procede? Si fa una lista di chi vorrebbe cenare. Man mano che arrivano gli “iscritti” uno se ne va, a scalare. Un rituale della lotta per la sopravvivenza. Restiamo in sei e in sei mangiamo. Polletto, spaghetti, formaggio, fichi. Non tutto insieme.
Dopocena da single: film da solo. Penso possa essere l’ultima sera. Guardo “parole parole parole” di Alain Resnais. Non mi spendo in un analisi del film, ma è un capolavoro. I personaggi parlano e ogni tanto inseriscono delle canzoni della tradizione francese in quello che dicono, e cantano con le voci originali. Le canzoni sono bellissime e vanno a costruire un musical surreale, come se fosse un grande discorso di senso comune pescato dalle canzoni classiche. Siamo noi che parliamo con le canzoni o sono le canzoni che ascoltiamo che ci fanno parlare così? Enigma alla Hornby. Lei che fa una tesi sui “contadini cavalieri dell’anno mille sul lago di Paladru”. L’altro le chiede “Ma interessa a qualcuno”. No. “E allora perché?”. Per far parlare gli stronzi. “Stronzo” in francese si dice salaud, si pronuncia /salò/. Anche da noi negli anni quaranta si diceva così.

Tuesday, October 04, 2005

dixneuviéme jour

Sveglia alle 7. Fuori è buio, fuori è freddo, fuori è duro. Dentro è un buio artificiale, dentro è caldo, e soffice. Fuori è Parigi, la Sorbonne, la cartoleria di Saint Germain, i giardini che virano all’autunno. Dentro una camera di foyer, mobili di compensato, termosifone laccato bianco, pavimento verdino. Stevenson ha sicuramente pensato a Mr Hyde provando l’esperienza di risvegliarsi con un altro sé stesso nel letto. Pigro, ammaliante svogliato, subdolo permissivo, ingannatore dalle mille risorse. Quando Claudio la mattina si svegliò da sogni inquieti si ritrovò tramutato in un ottuagenario vestito di flanella. Fortunatamente riesco sempre a vincermi e surgo dalle mie ceneri. Un verricello o una serie di pistoni idraulici sotto il letto mi renderebbero più facile il compito. Come sempre mi dico “oggi pomeriggio devo dormire” per ingannare il mio ingannatore e rotolo a fare colazione. Il caffè non si può bere, nemmeno dopo quaranta ore di lavoro alle Poste si può bere un caffè cosi per risollevarsi. Da un tubicino esce acqua bollente, da un altro una schiuma marroncina che poi resta in sospensione. Dove sta il caffè, il mondo si domanda. O viene generato dal vetro della tazza a contatto con il liquido alchemico oppure non esiste. Devinez! Già che ci siamo, penso che a Parigi non ci sia proprio bisogno di Starbuck’s Coffe, quando sulle pagine bianche si trovano 699 risposte a “Cafè”. Né di Kfc o Mc Donald’s, allora piuttosto un kebab. Questo intrattenervi mentre faccio colazione. Alle 8.30 sono alla Sorbonne, corso di “Vie quotidienne ecc. ecc.” si parla di miti, natura-cultura, “non ci sono molti lavori di analisi della pubblicità”. Ciò.
Io e Sonia rimediamo qualche libro in biblioteca e andiamo a studiare un po’. Dove si dove no. Al Bois de Boulogne. Ancora l’autunno non ha fatto il pienone di foglie morte e tavolozza dei rossi. Vediamo dove si noleggiano le bici, le barche nel lago. Faccio progetti di portarci qualcuno. Si impone prima una “prova remi” per non rimanere in panne e farsi venire a salvare dal bagnino francese, sarebbe decisamente squalificante. Leggo un testo di Padioleau sulla “mis en agenda politique” della legge sull’aborto degli anni ’70 in Francia. Ottimo per analizzare la contesa attorno al referendum sulla fecondazione assistita in Italia. Proporrò la cosa. Si beve un cafè lungo come una carestia e poi fa freddo e ognuno va per la sua via, che è poi la metro, che è poi casa propria. Prima di salutarci ricevo un invito per una visita alla nuova casa di Sonia e coinquiline. No, grazie, stasera c’è Born of a Nation di Griffith alla Cinémathéque. Non posso mancare. Ho un preciso piano d’attacco: cena da solo alle 19 per essere fuori presto e arrivare in anticipo, film inizia alle 20.30.
Sarebbe bello se fosse così semplice. Alle 19.10 due ragazze spagnole che sono state al Foyer e sono partite ieri mi mandano un messaggio. Stanno cercando ancora un appartamento, ovviamente mi ero offerto di aiutarle: mandata mail ad amici, dato consigli. Adesso mi dicono che alle 20 vengono al Foyer e devono vedere un sito di annunci, posso aspettarle e prestare il mio computer? No. Allora metto su tutta un’ organizzazione per lasciare il mio computer a qualcuno a cui loro faranno uno squillo quando arriveranno. Telefono, mando messaggi, spiego. Non possono andare in un internet cafè, no. Parto ovviamente tardi, corro (ma proprio corro, non cammino veloce). La prima metro si ferma nel tunnel per 5 minuti. La seconda attende per altri 5 fatali minuti. Arrivo alle 20.35. La sala è piena, restiamo fuori in una decina.
Ora, sul momento la cosa mi fa molta rabbia. Ma pensateci un attimo. Una persona che corre per andare a vedere un film muto del ’15 che dura tre ore. Arriva e la sala della Ciné è piena, non c’è più posto. C’est complet. Bene, ora immaginatevi la scena in Italia, o in un'altra città, Londra addirittura. Non funziona. La situazione è veramente straniante, c’è un’umanità diversa qui, altre scale di valori e altre abitudini. Perché poi uno ci si abitua, ma non è normale.
Deluso, ricevo il messaggio delle spagnole: non veniamo più. Dopo tutto. Lo invio a chi le aspetta. Somma dei risultati della serata: zero. Deluso, penso che forse sono ancora in tempo per la visita alla casa, è presto ed è vicina. Telefono, accetto il mio invito e parto con una bottiglia di vino. La casa è a Saint Mandè. Scala di legno e un po’ di marmo sparso. Rispetto alla media delle case studenti viste a Bologna è un gioiello. Hanno una vicina che le ha intrattenute mezz’ora sulla necessità che cambino ciabatte perché quelle che hanno fatto rumore, e sull’obbligo di comprare una moquette. Non fa marmellate. Si chiacchiera un po’, si beve il vino con un pezzo di torta (a parte, il vino nel bicchiere). Nessun avvenimento speciale. Torno a casa, il mio coinquilino doveva arrivare oggi, ma non c’è nessuno. Finisco il saggio che voglio leggere per domani e cerco di sistemare una vite agli occhiali con un coltellino prima e una presa usb poi (!). Ci riesco in parte e mi addormento tardi. Domani c’è la grève della Ratp, si prevede blocco bus e metrò.

Monday, October 03, 2005

dixhutiéme jour

La notte bianca sottintende mattina buia. In qualche modo si deve recuperare il sonno. Il pomeriggio se ne va quindi tra un po’ di sociologia e l’acquisto di una baguette per la sera. Il libro di Durand che stavo leggendo in pratica afferma questo. Anche se la nostra storia ha visto molti nemici delle immagini (in senso lato) un lato meno razionale, più illogico è sopravvissuto e gioca un ruolo forte nella post-modernità. Molti dei nostri giudizi e dei nostri comportamenti sono formati su un substrato simbolico che rimanda a miti innati che hanno subito un processo di sedimentazione e traduzione nel tempo. Oggi con il bombardamento di immagini di Tv e Cinema si rischia un impoverimento dell’immaginazione, un allineamento dei gusti e dei valori, un appiattimento delle capacità critiche individuali. Scuola di Francoforte, direte voi, 1930 al più tardi. No, 1994. Finalmente capisco a cosa ci si riferisce quando si parla dello scontro tra sociologi e semiologi. Non ne cita uno. E pensare che all’inizio (Barthes, Greimas) le analisi non avevano senso che nella e per la società. Ma nel ’94 -Eco scrive da un pezzo, ma anche i sociologi che fanno un po’ di etnografia- si spaccino per novità queste idee sui miti e si creda ancora che la Televisione rimbecillisca, a prescindere da cosa si guarda e come, mi pare un po’ anacronistico. Questo escursus per riempire una giornata un po’ vuota. A parte per la mia performance da nuotatore professionista su cui non vale la pena soffermarsi molto. Gli annali sportivi parleranno per me.
La sera vado alla Cinémathéque a vedere La grande illusion di Jean Renoir. C’è tutta una retrospettiva e una mostra sull’influenza del padre pittore sul figlio cineasta. Mi aspetto un polpettone invece è giocato tra ironia e rassegnazione. L’inutilità degli uomini in guerra (film del 1936, guerra mondiale numero uno) e il trattamento lussuoso riservato agli ufficiali prigionieri. C’era ancora un po’ di rispetto per la nobiltà che scomparirà nella seconda guerra mondiale. C’è una scena in cui gli ufficiali cambiano prigione e vengono elencati i loro tentativi di evasione. L’ho già vista, ne sono certo, ma non riesco a ricordare se fosse una citazione in un altro film o un estratto. Frase memorabile. I due prigionieri scappati arrivano alla frontiera svizzera, uno dice che non la vede. L’altro risponde “Oui, bien sur, les frontières sont pour les hommes, la nature s’en foutre”. Mi compiaccio di riuscire a capire il film sebbene senza sottotitoli. La serata termina così. Fa freddo. A presto un piccolo manuale (o decalogo) dal titolo “Lo studente Erasmus”, attendo ispirazione e ironia.

Sunday, October 02, 2005

dixséptieme jour

Giornata alternativa. Casalingo di giorno e nottambulo la sera. Mi spiego. Stasera c’è la notte bianca, un must. Sembra in realtà una festa erasmus, la città non ha fatto molta pubblicità, ci pensiamo noi a diffondere le voce. La mattina però, dopo aver sguazzato in piscina, ho dei problemi più stringenti, pratici: mangiare lavare. Notare l’evoluzione rispetto al binomio “cacciare mangiare” dei nostri predecessori meno Sapiens. Sono arrivato alla conclusione che il mercato davanti a casa è uno dei più belli di Parigi. Uno stop ai formaggi per oggi, scatta l’operazione pollo. Qui ovviamente si può comprare il pollo intero, mezzo pollo, un quarto di pollo, un’ala, una coscia singola, una coscia con un po’ di altro pollo intorno. Opto per quest’ ultima e ci aggiungo delle patate. Ora, non ricordo i prezzi dell’italia, ma un euro per un chilo d’uva (italiana) non mi sembra molto. Qui si lavora sui pacchetti d’acquisto, tipo 5 kg 3 euro. Ai banchi dei formaggi ci sono delle lunghe discussioni filosofiche. Mezza baguette, un po’ d’insalata e l’uomo ritorna alla sua tana. Cibatosi che fu vide che era cosa buona e decise che era giunto il momento di mondare i suoi vestiti. Doppia lavatrice: biancheria e maglie. Munito di schema materno (con temperature e raccomandazioni) mi avvio verso la macchina infernale. Acquisto i gettoni, metto il detersivo e lancio il ciclo. Nel frattempo scrivo un po’ di mail, controllo un po’ di corsi. E il pomeriggio cola via così.
La sera finalmente è notte bianca. Mi piace l’idea: portare l’arte nella vita notturna. Non che a Parigi ci sia bisogno di una grande educazione alla bellezza, la si incontra già anche nelle serate più vuote, ma questa sera è protagonista. Ci sono cinque percorsi: Montmartre, Belleville, Central, Bastille e Seine. Ancora migliore è l’idea di far scoprire indirizzi meno conosciuti, non c’è un percorso nel quartiere latino per esempio. Ogni luogo ha le sue caratteristiche e i suoi colori. Partiamo alle 21 in sette, diventiamo due, poi dieci. Iniziamo da Belleville perché il percorso si chiama Nuit de fete e pare buono. Forse è troppo presto, ma è un po’ vuoto per essere fete. In compenso trovo il primo angolo interessante e poco conosciuto, ci tornerò prima di segnalarvelo. Ci trasportiamo allora al Les Halles e qui si inizia a vedere qualcosa. Le strade sono piene, il traffico è in mano ai pedoni. Si possono anche noleggiare gratuitamente delle bici, ma sarebbe difficile girare. Nel parco centrale musica brasiliana. E’ l’anno del brasile e al centro tocca questo tema. I francesi commentano che è meglio dell’anno della Cina appena passato (sul palco ballerine brasiliane). Tamburi, luci e gente che balla. Ci si sposta in un flusso disciplinato, ogni tanto c'è della musica. Chi beve non barcolla, non rompe bottiglie, non disturba. Non è il runtur, ma il clima è ugualmente tranquillo, festoso. Non da "spacchiamo tutto finchè c'è buio" insomma. Propongo una visita a un locale che farà una maratona Jazz per tutta la notte. In rue de Lombards beviamo qualcosa e ascoltiamo del jazz-funky. Il cantante ha lo sguardo di Benicio del Toro e una voce da James Brown. Mischia francese e inglese. Il batterista ride per tutto il tempo, il chitarrista guarda nel vuoto, sax e tromba si scambiano i ruoli di tappeto e solista. Una mezz’ora e chi vuole rientrare se ne va. Restiamo io e Robert e andiamo a incontrarci con una coalizione franco-spagnola. Si traffica un po’ per decidere dove andare, noi puntiamo a Bastille e dopo un’attesa inconcludente davanti al Beaubourg si prende rue de Rivoli. Gli autobus sono stracolmi, si muovono con l’agilità di pachidermi. Decidiamo di andare a piedi, c’è tempo. Parlo con Stefania, una ragazza greca che studia filosofia alla Sorbonne. Un po’ delusa che i corsi siano molto classici. Anche io sono deluso, ho controllato i programmi e sotto contemporaneo c’è Kant… Ci si aspettavano discepoli di Deridda, Deleuze, Foucault. Ma gente così ha discepoli? Almeno ci sono conferenze esterne. Arrivati a Bastille il freddo ci vince e entriamo in un bar che ha qualcosa a che fare con la Corsica. Si chiacchiera un po’ (siamo 14) poi un gruppo di cinque valorosi va a fare un giro al percorso della notte bianca. E’ sulla Colée Vert, vecchia linea ferroviaria trasformata in passeggiata cinematografica. Atmosfere e suoni tratti da Hitchcock, Lynch, Kubrick. C’è qualche animale alle finestre, dei manichini che si abbracciano, rumori di vetri rotti e telefoni che squillano nel vuoto. E’ un bel percorso, si vede il quartiere da quindici metri d’altezza, se è aperto anche di giorno è una scoperta. Ormai è mattina, prima di rientrare io e Robert passiamo a salutare Montmartre: installazioni colorate e caffè gratutito. Beviamo il caffè sulla terrazza più bella di Parigi, salutiamo la città e i suoi molti abitanti ancora svegli e prendiamo la metro, ultima stazione Foyer de Charonne. E noi potremo dire “C’eravamo”. Dimenticavo: la pioggia ci ha graziati. Sono stato il fotografo ufficiale della serata (quando usciamo il giorno dopo vengono sempre a chiedermi le foto). Di alcune sono fiero, anche se non sono definite, idiosincrasia per il flash, ci sono i colori in movimento, le ombre che passano mentre lascio in esposizione, la luce che cola dai lampioni. Per altre foto.