Vingt et deuxième jour
A rebours. Vado a dormire dopo aver ascoltato del Jazz, il posto è lo stesso della prima sera: Cafè La Fontaine, stesso gruppo: Paceo Jam. Questa volta sono accompagnato: Robert, un ragazzo marocchino con il nome troppo difficile, tre ragazze francesi di cui una della Reunion, Naima. I francesi sono ambitissimi per fare conversazione. Lei studia a Science Po e con me parla di politica. “Si, ho visto un documentario su Berlusconi”. E’ sicuramente peggio di così. C’è un motivo perché sono di nuovo qui: abbiamo cercato altri bar, ma l’entrata era troppo cara, così ho proposto questo di cui ero sicuro, buon ambiente e bella musica. Prima siamo passati per place de la Republique, circondata da vie piene di bar e ristoranti di ogni parte del mondo, ma abbiamo già mangiato al Foyer, alle 7. Sono arrivato all’ultimo, dopo aver letto Deleuze e fatto un po’ di fotocopie al Centre Pompidou, veramente un ottimo posto. Tra qualche tempo, mi dico prima di entrare, ci sarà la coda di studenti che vengono qui a preparare gli esami. E’ una parte della biblioteca, come ogni elemento funzionale dell’edificio di Piano anche la coda è fuori, si racconta di attese di ore prima di entrare. Per ora invece è semplice, e si trovano anche tutti i libri. Si può fare una pausa per leggere i giornali, bere un pessimo caffè, guardarsi un po’ in giro. I tubi sul soffitto sono blu, tutti lavorano, vanno e vengono con libri e riviste. Sono arrivato qui dopo aver cercato un albergo per sorella+amica che arrivano il 14. Vicino a Place de la Republique ce ne sono diversi, la zona è buona. Il primo è il meno caro, ma è una cosa a conduzione famigliare cinese, corridoi stretti, stanza vuote, classica copertura di affari loschi. Fortunatamente ce ne sono altri. Ne trovo anche uno centralissimo, in rue des Ecoles, ma è abbordabile solo se si sceglie l’opzione “niente bagno in camera”. Cercherò altro e deviderò domani. Prometto che invece domani non lo farò, ma anche oggi, prima di studiare sono andato al cinema: Broken Flowers di Jim Jarmush, con Bill Murray. Non so quanti di voi se lo ricordano vestito da Ghostbuster, ma è inziato così, e già era il mio preferito. Poi un lungo declino e da Lost in Translation è uno degli attori più ricercati, a ragione. Come fa le facce indifferenti, apatiche e ordinarie lui non le fa nessuno. E poi al cinema avere delle rughe è sempre una risorsa in più, aggiunge potenzialità espressive, guardate Nicholson o Tom Waits. Il film mi piace molto. Un road movie sulle tracce di un padre. Classico. Solo che questa volta è il padre che parte alla ricerca di un figlio che non conosce. Gli è arrivata una lettera anonima e adesso lui passa in rassegna le sue compagne di vent’anni prima, si presenta con un mazzo di fiori e cerca di capire se siano loro le mittenti. Si ride molto, ma non solo. Belle le musiche, e attuale il modo di viaggiare. Tutto prenotato via internet, carte di credito, mappe stampate al computer. Mooolto meglio di sideways. Jarmush ha il feticcio dei colori che si ripetono -qui il rosa- e una scelta maniacale per i tavolini. Domani pausa film, ma a ottobre esce il nuovo Tim Burton, Oliver Twist di Polansky, I fratelli Grimm di Gilliam, Don’t come knocking di Wenders... Perché alle 11? Costa meno. Prima di andare al cinema mi sono svegliato e come sempre ho fatto la mia colazione.
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