Paris is a moveable feast ("Festa mobile" Hemingway). Blog su un erasmus a Parigi.

Thursday, October 06, 2005

Vingtiéme jour

/Grève/ Questa parola francese che in italiano significa “sciopero” ha in realtà per i parigini un significato simile a quello della stessa parola pronunciata senza accenti: /greve/. I macchinisti e gli autisti della RATP detengono il potere di vita e di morte in una città dove i mezzi pubblici sono fondamentali per ogni spostamento. Uno sciopero della metro spesso comporta uffici chiusi per mancanza di personale, lezioni sospese, panico generale, assalti ai pochi krumiri che diventano subito eroi nazionali. Pianifico malissimo la cosa: decido prima di arrivare in bici a Nation e prendere la linea 1, abbastanza garantita, o a Bercy a prendere la 14 che è sicura (dacchè manca di autista). Poi calcolati i tempi decido di andare direttamente a scuola in bici. Scendo a prenderla, inizio a salire, la ruota è a terra. Ripongo la bici. Vado a piedi verso Nation. Non ho preso la carte orange. Torno in camera (quinto piano quinto) discendo maledicendomi. Attraverso la strada: miracolo! L’autobus sta arrivando. Lo prendo e arrivo in classe con soli venti minuti di ritardo, a lezione ancora non iniziata perché si aspettano i ritardatari da sciopero. Le prime due ore passano bene, questo sociologie des sociétés européennes è molto interessante. C’è solo un problema: il prof. parla a voce talmente bassa che se prima di entrare avete ascoltato della musica per i primi dieci minuti non sentite. Un film muto, lui muove le labbra, ma voi non sentite, davvero. Le altre due ore saltano perché non arriva la prof. Ovviamente la prima volta che c’è un momento libero si conosce qualcuno. Una ragazza giapponese e un ragazzo francese, si parla un po’ dell’università in generale e ci si scambiano le mail per accordarci sull’esame, un’ esposizione orale da organizzare in piccoli gruppi. Poi mangio un pessimo panino e vado da Gibert and Joseph, La Libreria. Cinque piani di morbidezza. Dopo lunghe ricerche scopro che al quinto piano ci sono i “livres de poche”, un istituzione francese che raggiunge il suo apice a Parigi. In pratica libri vecchi o usati, o anche solo minimamente rovinati che pagate fino a tre, quattro volte meno dei libri nuovi. E libri buoni, classici e novità, non Liala ecco. C’è una distesa di libri di Calvino, un Baricco, un Camilleri, uno Svevo. Per sei euro compro una grammatica francese e due libri di Le Cleziò (e qui vi sfido) che da noi è come trovare un filantropo in borsa, ma ha trenta libri all’attivo. Passare per la sessione filosofia è sempre un rischio e mi rimane attaccato “L’image-mouvement” di Deleuze in offerta. A piano terra trionfo del fumetto, ma re\de-sisto ed esco. Il resto del pomeriggio è in biblioteca, a leggere un bellissimo saggio di Ulrich Beck, tradotto in francese. Molto pessimista sulle condizioni di lavoro in Europa. Il livello medio di istruzione e di benessere si è alzato, sempre di più si alza anche il numero di chi fa l’esperienza della disoccupazione. Studiare tanto non basta più, ci vuole altro. Non esiste più una classe sociale colpita dalla disoccupazione, né quindi una solidarietà di gruppo su questo tema, non è più argomento di sinistra, il disoccupato può partecipare alla manifestazione, per sentirsi parte di qualcosa, e poi votare a destra. Così la disoccupazione diventa un fenomeno privato, vissuto come uno scacco personale, si ha un’individualizzazione dell’alienazione che riguardava la “classe operaia”. Ritornando al Foyer non ho particolari problemi con la metro, a parte un po’ di ritardo. Il mio coloc. non è ancora arrivato e festeggio facendo una doccia. Non che mi dispiacerebbe avere un compagno, francese, con cui parlare, ma ci sono alcuni contro. Tipo non preoccuparsi di fare rumore quando si rientra in camera, niente divisione spazi, possibilità di girare in mutande, di guardarsi un film a qualunque ora, di aprire-chiudere-accendere-spegnere a piacimento ogni cosa, non dover dribblare altrui scarpe, vestiti, corpi. Però se poi è simpatico e mi fa parlare molto va bene. Anche se per ora comportarmi come un gas mi piace.
A cena siamo in dieci a non esserci iscritti, e tutti pensavamo che sì. Allora come si procede? Si fa una lista di chi vorrebbe cenare. Man mano che arrivano gli “iscritti” uno se ne va, a scalare. Un rituale della lotta per la sopravvivenza. Restiamo in sei e in sei mangiamo. Polletto, spaghetti, formaggio, fichi. Non tutto insieme.
Dopocena da single: film da solo. Penso possa essere l’ultima sera. Guardo “parole parole parole” di Alain Resnais. Non mi spendo in un analisi del film, ma è un capolavoro. I personaggi parlano e ogni tanto inseriscono delle canzoni della tradizione francese in quello che dicono, e cantano con le voci originali. Le canzoni sono bellissime e vanno a costruire un musical surreale, come se fosse un grande discorso di senso comune pescato dalle canzoni classiche. Siamo noi che parliamo con le canzoni o sono le canzoni che ascoltiamo che ci fanno parlare così? Enigma alla Hornby. Lei che fa una tesi sui “contadini cavalieri dell’anno mille sul lago di Paladru”. L’altro le chiede “Ma interessa a qualcuno”. No. “E allora perché?”. Per far parlare gli stronzi. “Stronzo” in francese si dice salaud, si pronuncia /salò/. Anche da noi negli anni quaranta si diceva così.

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