Treinte et cinquième jour
Mercoledì, credo. Ricostruisco le giornate a partire dai corsi che ho. Tipo: mercoledì mattina niente. Allora cosa ho fatto? Volevo andare alla Villette -iniziata mostra su Star Wars, bella giornata, parco con aceri rossi- ma la linea 7 ha avuto la buona idea di rompersi. Scartata. Devo portare a Sonia la mia carte Orange ormai inutile da prestare al copaine che arriva giovedì. Ci si incontra al Centre Pompidou (perché è bello dire “ci vediamo al centro pompidou”). Consegno il mio omaggio e la seguo a Les Halles, con il tempo che ci vuole per spostarsi a Parigi non si può uscire e rientrare nel giro di mezz’ora. Les Halles sono vuote, io devo cercare una stampante, lei un regalo -un cuscino arancione-. Compro una tazzina, non posso avere moka e caffè italiani e bere in un bicchierone. Ci sono molti negozi che si potrebbero trovare nei passages di Parigi, peccato siano qui, senza personalità. Alla Fnac trovo la mia stampante, me ne carico e vado a prendere l’autobus, molto più comodo che la metro in caso di pacchi ingombranti. Per cinque minuti l’autista deve cambiare strada per un’interruzione. Tutti guardano dai finestrini come se scoprissero una città nuova, entrano ombre diverse. Arrivo a casa, monto il mio apparato tecnologico e scendo a cucinare. Perché butto del pomodoro in una pentola, aggiungo delle spezie e cucino una pasta al limite della decenza sembro Il Cuoco. A destra e sinistra sempre sughi pronti. Offro del parmigiano, accolto come acqua nel deserto. Caffè preparato con diligenza. Il tempo di leggere un po’ e riparto per il corso di semiologia. Elementi positivi della giornata: parlo con la prof, posso fare un memoire un po’ su quello che mi pare “sa io studio a Bologna, noi queste cose le facciamo alla terza lezione del primo anno, non al Master” (non proprio così). Spero di poter trovare un alleata sul campo per suggerirmi seminari e opportunità semiotiche. Esco comunque una mezz’ora prima per evitare l’intossicazione da trattini + e - e arrivare in tempo per la cena al Foyer. Un gruppo va al cinema, ma io non posso. Come, direte voi, senso di responsabilità e studio? No, ho un posto per l’anteprima di A History of violence di David Cronenberg. In presenza di Regista e primattore (Viggo Mortensen). Arrivo un quarto d’ora prima, si fa la fila, poi la sala è strapiena. Avete presente quei discorsi introduttivi pesantissimi pieni di deferenza e magnificazione, tutti incentrati sulla biografia e “io l’amavo quando ancora nessuno..”?. Niente di tutto questo, il presidente della Ciné è ironico, ancora di più lo è Cronenberg. Viggo Mortensen non è più l’Aragorn capellone sporco e cattivo, è un personaggio secchino, di un biondo slavato. Parlano del film, della Ciné che è francese, ma patrimonio di tutti i registi, qui per la prima volta il cinema è stato chiamato arte ecc. Cronenberg parla in inglese, Mortensen in francese molto stentato. Quando il regista gli dà la parola lui dice solo “hemm” e Cronenberg “Vedete con cosa ho a che fare sul set?”.
Il film. E’ un gran film per la costruzione narrativa, come inizia, come ogni elemento si incontra come per caso, il passato che arriva in una macchina nera. Davvero ben fatto, con tutti gli ingranaggi che si sistemano al secondo preciso in cui devono scattare. C’è molta inquietudine, è una storia d’amore immersa nella violenza, violenza per ristabilire la pace. Il suo personaggio è da Tarantino, l’intreccio è semplice, con molti punti lasciati in penombra. Certo mi direte voi, si può anche fare un film senza braccia che si spezzano, pallottole in testa -tutto quel cervello che cola- nasi che schizzano sangue. Si, si può, ed è un peccato che ci sia la violenza, perché per il resto il film prende comunque allo stomaco, un po’ sul genere Mystic River, un po’ Padrino. Adoro Ed Harris nel ruolo del cattivo senza un occhio. Me ne vado prima del cineforum, se ci pensa un po’ uno ci arriva da solo ai significati, poi domani ci sono i giornali apposta.
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