Paris is a moveable feast ("Festa mobile" Hemingway). Blog su un erasmus a Parigi.

Tuesday, January 31, 2006

28-29-30/1 Post in scadenza

E’ qualche giorno che non scrivo. Imparo da un libro di Weyergans che in Giappone gli editori usano chiudere in albergo gli scrittori e passare a riscuotere ogni settimana un capitolo.
Non abito in albergo, non ho editori, nessuno mi paga.
Oltre a questo, le motivazioni principali perché una persona che ama scrivere non scrive:
- C’è poco da dire: meglio leggere altro, che scrivere n’importe quoi (tipo se Brizzi continuava a leggere Salinger invece di abbozzare Jack Frusciante)
- La scrittura è paradossale: ci vuole un tempo morto per poter scrivere di quello vivo. E a volte si è troppo assorbiti dal secondo (cioè non è che Hemingway mentre andava a caccia in Kenya, mirava un bufalo, poi appoggiava il fucile, prendeva il taccuino notava “ho un bisonte nel mirino, provo questo e questo” poi lo riprendeva, lo riposava ecc. Ma questo dipende anche dal bufalo).

Comunque qualche appunto alla maniera di Sterne (senza linearità) me lo concedo -e mentre fuori c’è un bellissimo sole io sto qui seduto a scrivere in una stanza arredata con gli scarti del truciolare Ikea-
Sabato arriva Filippo, in coincidenza con l’ultimo weekend di Robert. Veniamo invitati a una festa. Ok,
non esattamente. Benjamin compie l’errore numero 1 dello studentato: dire “dei miei amici danno una
festa questa sera, volete venire?”. Aggiungendo il corollario inutile “basta che non siamo in tanti”. E
l’inevitabile “basta portare da bere”.
In un minuto ognuno contatta altre tre persone e finisce che siamo in dieci a ritrovarci a Bastille.
Tutti arrivano da un posto diverso. Alcuni hanno cenato, altri no. L’idea è di andare da Lèon a
mangiare moules e frites. (Moules che costituiranno il leitmotiv del weekend). Ora bisogna sapere che
tutte le metro di Parigi sono tappezzate da affiches che urlano: “VENITE A MANGIARE LE
NOSTRE COZZE IN SUPEROFFERTA, SOLO 10,90€ FRITES SUFFICIENTI A UCCIDERVI”
(insomma il senso è questo). Legittima allora la nostra domanda : “C’è l’offerta moules-frites=10,90?”
Risposta, non troppo inattesa “no. Non nel week-end”
-Bene, e allora quale il prezzo fuori offerta, nel weekend?”
Risposta del diplomato in economia che ci ritroviamo davanti “10,90”. Tutti gli indizi suggeriscono
l’identità, ma non siamo spiriti abbastanza eletti per indagare oltre.
La seconda domanda è più azzardata “siamo in 10, ma ceniamo in sei. Gli altri possono sedersi e
prendere una birra?”
Risposta “Certo”, che un minuto dopo diventa “c’è molto da aspettare” e dopo uno e mezzo “ma
proprio tanto”. Tre minuti dopo siamo a mangiare cinese dall’altra parte della piazza.
Alle 11 arriviamo alla festa, maggioranza di gente in prepà lettere per la Normale. Appartamento per niente studentesco: parquet nuovo, specchi con cornici dorate ovunque, orologio con satiri sopra il caminetto. La prima impressione è di essere sul set di “Eyes Wide Shut” per gli specchi. La seconda su quella di The Dreamers, per la festa in casa ricco-borghese, stucchi al soffitto, tappeti ovunque, genitori cacciati non si sa dove. Ma la scelta di cd è raccapricciante, un best di Jimi Hendrix si chiede come sia capitato qui, io tento di metterlo a ripetizione, ma non sopravvive per più di una canzone. A mezzanotte si prospetta la catastrofe: andare in una sorta di discoteca, che significa restarci fino alle 5.30, orario di riapertura della metro. Il pericolo viene scongiurato, e nel giro di un paio d’ore riusciamo anche a chiedere “ma di chi è il compleanno?” e fare persino gli auguri. Alle 4.30 veniamo gentilmente accompagnati alla porta (“spinti verso” è più vicino alla realtà). Restiamo Io, Filippo, Benjamin, Robert e Lore, una ragazza francese conosciuta alla festa. Cerchiamo un caffè, al terzo tentativo ne troviamo uno vicino alla Tour Montparnasse. Robert e Lore decidono che hanno fame. Legittimo. Pensano di ordinare qualcosa insieme. Nessun problema. L’elemento interessante è che la loro razionalissima scelta cade su un piatto di moules. Ora, le moules sono cozze. “Cozze alle 5” potrebbe essere il capitolo di un harmony intitolato “Confessioni di un marinaio”. “Moules à 5h” un pezzo di Vian. “Mussels at 5 a.m.” un delirio di Bukowsky. Ma nella realtà è una cosa abbastanza scioccante. Ancor più che quei barbari dei francesi rispondono che “no, non servono cozze all’alba”. Le truppe ripiegano e tornano all’attacco: allora un’insalata marsigliese, con patate, prosciutto, carote e quintali di maionese. Questa si. Leggera e soporifera, soprattutto accompagnata da un caffè bollente.

Rientriamo alle 6.30 e la domenica mattina se ne va a letto.
Pomeriggio giro nel marais con Filippo. E’ il capodanno cinese, si fa fatica a passeggiare. Davanti a hotel de Ville petardi a ripetizione. Aspetto la scena alla Coppola in cui il gangster approfitta della copertura sonora per sparare una mitragliata sulla folla. O il cecchino dall’Hotel de Ville. Hotel de Ville oggetto di una scena metropolitana raccontata: linea uno, fermata “hotel de Ville”, scende molta gente. Lui “deve essere famoso ‘sto posto”. Lei (che di cognome immaginiamo faccia Diderot) “Bé, è un albergo”. Certo, e al Ritz producono salatini, la Defense è il ministero della difesa, agli Invalides è tutta una stampella, a Madeleine è conservato un immenso plumcake che piaceva tanto a Proust.

Il pomeriggio prendiamo un caffè nell’Ile Saint Louis, uno di quei posti che danno l’idea di essere lontani da una mega metropoli. Sul ponte pedonale dietro Notre Dame un saxofonista e un pianista suonano Coltrane. Sotto: la Senna. Sullo sfondo: l’Hotel de Ville illuminato dal tramonto. Un po’ a sinistra: Notre Dame. Si può sopportare una vita alla giornata, in queste condizioni?

Finalmente a sera riusciamo a cenare da Léon, non evitando di porre la domanda “L’offerta a 10.90 vale?” “No” “allora quale il prezzo per moules e frites a volontà?” “10.90”. Benjamin vorrebbe fargli notare che le cose coincidono, ma lo persuado a lasciar perdere. Dopo cena si replica il programma di domenica scorsa: Taverna di Cluny con il chitarrista manouche, che nel frattempo non ha dimenticato come si suona.

Lunedì, dopo aver lottato per recuperare la prenotazione di Filippo in ostello, abbiamo un invito a Montmartre per un caffè chez Silvana, l’ormai non più anonima commentatrice di questo blog, ex studentessa di comunicazione che non si sa come ha deciso di continuare la specialistica a Parigi [e che ovviamente ho conosciuto qualche giorno fa, non che dia indirizzo e codice di casa a ogni sconosciuto italiano in terra francese]. Ci accompagna in giro per una Montmartre non ancora invasa dai turisti, poi scendiamo nella parte bassa vicino ai boulevard, nel triangolo fatale Chartier -il ristorante popolare con portabagagli come appendiabiti-, Mère de famille, e passage Verdeau -con il negozio dedicato all’editoria cinematografica più bello di Parigi-. Ci spostiamo sugli Champs Elysées passando per il palazzo della Borsa e alle 18 ritorniamo coppia omologa -dimezzando i nostri punti charme- perché lei ha un colloquio per un lavoro come insegnante di italiano.

La sera ceniamo da Hippopotamus, tanto per cadere vittime della seconda campagna pubblicitaria onnipresente in questi giorni in métro. Cade la notte.

Questo post assomiglia a una deposizione in questura, ma tant pis, c’è tanto di meglio da leggere, ma forse anche qualcosa di peggio (i libri di Vespa, per esempio) e da guardare (le trasmissioni di Vespa, per esempio).

Thursday, January 26, 2006

Deus caritas est

Vignetta di Liberation sull'enciclica del papa:

Wednesday, January 25, 2006

Gelo

Rettifico: anche Parigi gela. Laghetto de Luxembourg ghiacciato con i piccioni che scivolano sopra. Un'insegna invita a non salire sul ghiaccio (ma dai!). Resta il sole, i bambini che saltano nelle pozzanghere congelate, la Senna, Il Pantheon e tutte le altre cose che ti fanno sentire meno freddo (da non dimenticare: guanti, cappotto pesante, sciarpa, caffé, il papa sulla prima di Le Monde).

Racconto natalizio fuoritempo

Dato che pare tutto il mondo stia gelando tranne Parigi, vi propongo un racconto natalizio ritardatario:
Note per una fiction natalizia.
Non vorrai mica rifiutare un lavoro dalla Fox, mi dicono. Certo che no. Voglio dire, anch’io ho un affitto da pagare, cosa vi credete? Però la fiction di Natale, no vi prego. Metà del budget se ne va nei cannoni sparaneve, un quarto dello stipendio in bicchieri per digerire il buonismo colloso. E poi gli addestratori di uccelli li detesto, ma ci vorrà una buona dozzina di pettirossi che becchettano alla finestra, no? Se poi dovessimo pagare il copyright sui sinonimi di “luccicante” andremmo in bancarotta. Bisogna poi sfrattare tutti i barboni di Saint Germain (si, perché quest’anno l’originalità sta nel set parigino che sostituisce l’hupper wes side). L’albero almeno non è un problema, c’è quello finto riciclato ogni anno, e grazie a dio che non si debba sentire l’odore della resina. Forse qualche finanziamento in più lo si rimedia grazie a una sequenza di primi piani tipo “apertura pacco regalo-guance rosse-marca ben in vista”.

La prima parte è sulla preparazione della cena e l’arrivo degli ospiti. Una fatwa colpisce chi si scosta dal canone. Ne ho conosciuti una decina che non hanno lavorato per anni a causa di ardite sceneggiature in cui un arrosto mancava di vino perché non se n’era trovato, o peggio “erano finiti i soldi” per lo champagne. Non esistono toppe nei pantaloni, cappotti troppo usati, nemmeno un calzino rammendato dentro un paio di scarpe nuove. I soldi sono sempre abbastanza, i figli bene a scuola, i cani di razza in casa o bastardi raccolti morenti per strada, le donne in carriera, ma devote alla famiglia, le giacche stirate e il make-up perpetuo.

L’ospite a sorpresa lo facciamo arrivare alla scena 27. Camera esterna fissa sul campanello (sentiamo ancora in sottofondo le chiacchiere della tavola). Il dito schiaccia il pulsante tondo e dorato. Bordo del cappotto con qualche fiocco di neve. Sull’eco del suono passiamo all’interno. Lei sorpresa si interrompe, guarda lui. Ma nemmeno se mi raddoppiano il compenso nel copione entra la frase “Aspettiamo ancora qualcuno?”. Meglio sfumare su lui che va ad aprire. Suo fratello tornato da una missione in Cambogia scuote la neve dal cappotto e sbatte i piedi. Ovviamente non esistono compagni uccisi, madri straziate, natali al fronte, fagioli in scatola.

Camera indietro sulla tavola e tutta la seconda parte ce la si gioca sui ricordi d’infanzia, non si escludono flashback lattiginosi. In casi disperati nemmeno il ricorso all’album di famiglia. Campanelli come se piovesse e un paio di Sinatra per la musica.
Sul finale usciamo dalla la finestra, allarghiamo sulle terrazze vicine (niente giardini con staccionata bianca sui boulevards), luci accese ovunque. Sfumiamo sul suono delle campane che chiamano a raccolta. Quadro fisso sul cielo e titoli di coda.

Monday, January 23, 2006

Weekend 20-22/1 Centième jour (?)

Che un francese un venerdì sera in un Pub scozzese possa riferirsi al primo ministro del vostro paese chiamandolo per nome fa capire molto sulla considerazione di questo uomo. Non esiste Monsieur. Come un comico d’avanspettacolo (se qualcuno nota la differenza me lo faccia sapere: a momenti inizia a invitare lui i presentatori ai suoi programmi). Che poi è anche difficile spiegare perché è così malvagio. E’ come se in un esame di geografia ti chiedessero: l’acqua. Cioè da dove cominci? Dai grandi oceani e risali fino ai ghiacciai, oppure dai piccoli ruscelli che scendono a valle. In pratica: inizio subito con Craxi, la corruzione, o parlo prima delle ultime leggi?
Dopo un po’ si devia su altri argomenti. Buon ambiente in ogni caso: Scottish Pub a Saint Paul.

Sabato si lavora, la sera pochi hanno voglia di uscire. Vado con Johannes a vedere “Brokeback Mountain” durante il quale riflettiamo sulla nostra virilità. Un film su due cowboy omosessuali diretto da un coreano il cui ultimo film è stato Hulk.
Il film è una storia d’amore in Wyoming (dove mi pare sia stato vietato se non altro ai minori). Se nelle tragedie di Shakespeare ci si mettevano in mezzo le famiglie qui c’è una società che obbliga al rodeo, al machismo, alla donna a casa che bada i bambini. La moglie è doppiamente vittima, per altro. Una grande storia d’amore e d’amicizia. Film moderno, aperto? Forse. Di certo c’è che per mostrare una relazione omosessuale bisogna ancora farne il soggetto del film. E risparmiamoci le critiche sul genere “Il Wyoming arretrato”. Ahbèperchéinvece l’Italia…

Domenica finalmente ci prendiamo una vacanza. Io, Johannes, Zackia e Adriana andiamo a vedere una mostra di foto all’istituto del mondo arabo. Vi segnalo due nomi: Dalia Khamissy e Farida Hamak. Potete trovare una brochure qui.
Foto sul muro di Israele. Johannes mi dice che in Germania, adottando le parole di Israele, il “muro” viene chiamato “griglia-rete”. Siamo al paradosso semantico. Vedi attraverso? E’ una griglia. Non vedi attraverso? E’ un muro. In più qui è proprio il muro prototipico, cemento e nient’altro. A questo punto la balena è un pesce, le carote un frutto, l’Italia un paese laico.
A pranzo scegliamo un ristorante nel marais, ottimo angolo, ma cibo un po’ deludente. Pomeriggio a casa e sera a “la taverne de Cluny” in rue de la Harpe. Concerto di Jazz manouche con un chitarrista che nasconde dita invisibili al pubblico. La chitarra deve essere di ciliegio, e le corde piantate a martellate per resistere allo stress. Veloce ed efficace come un rasoio a tre lame. Per un attimo mi pare di vedere lo spirito di Django Reinardt che ammicca bevendo un wishky.

Friday, January 20, 2006

quatrevingtdixième jour -a caso-

Perché non mi si rimproveri il fatto di non scrivere, ecco qua quello che faccio. Vado alla cinémathèque.
1-Akira Kurosawa: Ikiru (Vivere)
Mr Watanabi. L’uomo qualunque. Il burocrate di un Giappone che si risveglia dalla guerra come un pachiderma imbottito di sedativi. E’ il “capo della popolazione”. Ma ognuno può essere capo di n’importe quoi, tanto ci si rinvia i casi da un dipartimento all’altro come in un flipper. Delle donne vagano per dieci uffici implorando il risanamento di una palude metropolitana. Chiedono un parco. Popolazione? Demanio? Opere pubbliche? Sanità? Nessuno. Ma con Watanabe è diverso, per la prima volta nella storia del cinema vediamo il nostro personaggio prima da dentro che da fuori. Il narratore ci mostra nella prima inquadratura una radiografia: Watanabe ha un tumore gastrico, lo saprà domani, gli resteranno cinque mesi da vivere. E io che mi stupivo che Ozon ci informasse di una malattia due minuti dopo l’inizio del film.
Il fine di questo personaggio è dunque morire. Niente attese, non ci saranno colpi di scena. Come sempre la storia è “cosa fare nel frattempo?”. Watanabi è disperato, rassegnato. Ha buttato tutta la sua vita nel lavoro, e adesso? Come vivere in cinque mesi una vita? Prima prova con un giovane scrittore che lo conduce tra le perdizioni della città. Il suo Virgilio. Poi incontra una ragazza che lavorava da lui. Sempre piegato, quasi sempre muto, patetico e spesso fastidioso Watanabi arriva a dirle “Guardarti mi mette la voglia di vivere”. La sua Beatrice. Lei costruisce coniglietti di peluche, “mi dà l’idea che i bambini mi siano amici”. E lui capisce, si illumina di una luce catto-comunista: bisogna fare qualcosa per il popolo. Torna al lavoro con il suo cappello da gigolo (il suo l’hanno rubato e ne compra uno in un quartiere a luci rosse) e decide: faremo il parco. “Ma è impossibile” no. Da qui un fiume di retorica. Watanabe muore e al suo funerale bevendo saké gli si fa un processo. L’assessore a qualcosa si è preso il merito del parco. E’ stato o no Watanabe? Alla fine, ubriachi, si decide che si, è stato lui con la sua insistenza, con la rassegnazione, è addirittura riuscito a creare qualcosa in Giappone, dove “per vuotare un cassetto servono le autorizzazioni sufficienti a riempirlo”. Da oggi tutto cambierà, si lavora per il popolo, raccogliamo l’eredità. Una scena dopo, il sostituto di Watanabe risponde a donne che portano una petizione “Andate alla Sanità, ufficio cinque”.
Però il parco si è fatto, e i bambini giocano.


Per non risparmiarvi nemmeno un film: “The ox-bow incident” visto una settimana fa. Con Henry Fonda. Uno dei più bei western di sempre, non so se da noi sia mai arrivato. In soli ottanta minuti Wellman ricrea “l’Antigone” nel west. La lotta tra buon senso e legge è qui la lotta tra giustizia da soli e legge. Del bestiame è stato sottratto e un uomo è stato ucciso, così dice un ragazzo al saloon. Si cerca di far ragionare la gente, ma no, non aspetteranno lo sceriffo che è andato a investigare sul luogo, bisogna trovare i colpevoli e giustiziarli subito. Tre contrari tra cui Fonda. Partono tutti. I primi tre stranieri che trovano sono i colpevoli. Hanno del bestiame del morto senza ricevuta. Il capo degli stranieri si spiega: sono amici, la ricevuta la spedirà. Inizia il processo da inquisizione: se confessi ti impicchiamo perché sei colpevole, se non confessi ti impicchiamo perché non confessi. Li impiccano, tutti e tre. Nello stesso istante arriva lo sceriffo. L’uomo non era morto, era stato solo ferito e i criminali sono stati presi. Sono morti tre innocenti, uno di loro prima della corda ha scritto una lettera alla moglie: “le leggi sono la coscienza di un popolo, non delle semplici parole”. E’ Fonda che ci legge la morale da contratto sociale.
Il film ha anche qualche battuta geniale. I due arrivano al bar:
Barista: “Cosa bevete, Whisky?
“Cos’hai?”
“Whisky”

Tuesday, January 17, 2006

A.A.A.

La ditta AiE (A.rrangiarsi i.n E.rasmus) è lieta di presentarvi l’ultimo prodotto della mente geniale dei suoi ingegneri: la frighestra. Un metodo allo stesso tempo pratico ed economico per conservare i vostri cibi in camera in assenza di un frigorifero elettrico. All’inavveduto la frighestra potrebbe apparire del tutto simile al prolungamento di una finestra da camera. In realtà la sua parete in vetro esposta a nord e la pratica griglia in metallo formano un’intercapedine in cui i vostri prodotti potranno mantenersi al fresco per ore. Una tenda è installata per permettere di mantenere il clima ideale dentro l’appartamento e all’intero dello scomparto refrigerante.

La frighestra viene venduta in combinazione con l’indispensabile gancello, un gancio che in caso di maltempo funziona anche da ombrello. In questo modo raggiungere le borse che contengono i vostri cibi non sarà più un problema.
Durante l’estate (senza modifiche pensate!) la stessa frighestra si trasforma in fornestra, per scaldare o mantenere caldi i vostri alimenti, o per fornire alle vostre piante d’appartamento un luogo ideale quanto a esposizione alla luce e protezione dal vento.

Ordinate da subito, il prodotto è già disponibile nei nostri magazzini.

Sunday, January 15, 2006

Quatrevingt et je ne sais plus combien jours

Qualche aggiornamento di ordine cinematografico, preceduto da una curiosità.

Curiosità: se andate in place de la Sorbonne vedrete sulla destra una porta. Per entrare vi chiedono una carta studentesca. Se attaccate la Sorbonne dall’altro lato, su rue Saint Jacques si presenta la stessa situazione. Ora si da il caso che la galleria che unisce la piazza e la via fosse anticamente una strada. Legalmente lo ancora. E’ una via di Parigi, quindi tutti hanno il diritto di passarci senza mostrare alcun documento. Per altro è molto pratico per raggiungere il College de France.
Quindi se un giorno passate di qui e volete dare noie agli uscieri ora avete un pretesto.

Altra notizia Sorboniana: la librairie de la Sorbonne, all’angolo con bld. Saint Michel sta per chiudere. Al suo posto un negozio di vestiti. In questi giorni in vetrina: articoli di protesta, dichiarazioni di affetto, rabbia. Molti passano davanti e si indignano, poi però vanno a comprare da Gilbert Jeunes, duecento metri più avanti.

E ora il cinema: visto Moby Dick di John Huston. Gregory Peck come Achab tiene fino a un certo punto, meglio come avvocato. L’Ismaele belloccio ancora meno. Il viaggio in mare è comunque bello, Orson Welles nei panni del predicatore è una chicca. Un grande classico, toccato solo in parte dalla grazia del libro -e il libro ha grazia sufficiente per toccare i visitatori della mecca negli ultimi cent’anni-.

Altro film, l’Atalante” di Jean Vigo. Il film senza il quale non esiste il cinefilo francese. Grande bianco e nero, piani bassi e riprese aeree. Si gioca con l’introduzione del suono, che permette una lunghezza delle sequenze insostenibile nel muto. C’è una scena in cui loro entrano nel canale Saint Martin con il battello. Riprese dalla banchina, vista sul canale. Un altro po’ di magia su quest’angolo non troppo sfruttato di Parigi. Il confronto tra la metropoli e la vita lontano da tutti, in mare. Chi segue Fuori orario ritroverà la scena del giovane che nuota sott’acqua. Poesia per immagini, e pure divertente.

Saturday, January 14, 2006

Foto bonus

Thursday, January 12, 2006

Appunti sparsi

L’angolo più bello di Parigi lo trovate entrando in rue de Brosse dal Quai de l’Hotel de Ville. In un passo vi sembra di essere capitati in un paese del nord della Francia. Il dorso di una chiesa dal tetto scuro, degli scalini larghi e storti, quasi delle incisioni sulla pietra, che potrebbe aver disegnato Van Gogh. In rue Francois Miron poi, oltre a tre case medievali per niente comuni a Parigi, una combinazione di brasseries, pasticcerie, negozi di vino che la proiettano nella top five del Marais.
Il bazar Izrael è arrivato qui non si sa da dove. Forse una carovana dall’oriente si è fermata per riprendere fiato ed è rimasta. Dietro una vetrina coperta dagli adesivi di tutte le guide del mondo un vero bazar. Zenzero, nocciole, noccioline, halva, taziki, alici, olive, olio, farine, zafferano, pistacchi, sapuri, turiri, katimi, sezemi… finisce che scegliete il colore e indicate, “quello”. Attenzione perché “un po’” per l’uomo che vi serve è una badilata da mezzo chilo, pronti a fermarlo. Se vi interessa cercano qualcuno che sistemi il negozio, a tempo pieno.

Il vaso di Pandora, di Georg Pabst, con Louise Brooks. Lei è un’icona, bellissima, fatta apposta per essere disegnata. La scelta strategica di mettere un film muto alle 20.30 crea problemi. Molti non hanno mangiato, oltre il disagio iniziale del muto ci si mettono gli stomaci della gente a fare rumore.

Il canale Saint Martin è una perla anche la sera, poco affollato, caffè altrettanto piccoli, ma con più spazio che nella zona Quartier Latin.

Un riassunto delle mie giornate? 80% del tempo alla Bnf, a studiare da solo o con Johannes. Abbiamo superato la fase di turisti frenetici, dosiamo meglio forze e tempi.

Monday, January 09, 2006

Riprendo

Buon natale buon anno, ai miei venti lettori che mi scrivono e mi dicono "E il blog?".
Non ne avevo voglia.
"E adesso non metterai mica nove giorni arretrati?"
Non ci penso nemmeno. Appunti, piuttosto, storie, commenti. Ormai Parigi la conoscete, non starò a tormentarvi.
Intanto, in tema post natalizio bevetevi una storiella edificante.

Storiella edificante
Stavano camminando in Rue Notre Dame des Champs, verso l’ingresso del Luxembourg. Nel suo sacco, oltre alla mappa di Parigi, una bottiglia d’acqua e un paio di dvd trovati lungo il cammino, se ne stava, ignaro del suo prossimo destino, del pane. Era quel pane, di farina scura, marrone, spolverato di farina e riempito di qualche rara noce, avanzato dalla sera innanzi. Il pasto non consumato, nei loro francescani intenti, doveva fornire da nutrimento e rinforzo all’anima dei piccoli augelletti che sicuramente avrebbero trovato al giardino. Quand’ecco, sferzato dal vento gelido di quel 5 gennaio, avvicinarsi un uomo malvestito, ciondolante e sporco come un calzino steso sorpreso dal temporale. Era costui un esemplare della triste schiera di quelli che in francese si è usi chiamare “clochard”, “barboni” in italiano, senza cura delle loro effettive abitudini in merito all’acconciatura. Questi li sorpassa sulla sinistra, fa qualche passo e si mette a cercare un qualche alimento, qualsiasi cosa che potesse alleviare la fame o scaldare lo stomaco. I due lo guardano, si guardano, decidono. Quale miglior occasione per dimostrare la propria sensibilità nei confronti degli esseri umani? Non sono forse questi più bisognosi di pane che gli uccelli del parco? Certo la loro riconoscenza è maggiore, e a fare del bene alla propria specie se ne ricava un torpore edificante, una piccola gioia di chi fa del poco tra la massa di chi fa nulla. E allora eccolo, lui, incaricato della missione di dar da mangiare all’affamato, con lei che supporta, avvicina, sorride. “Monsieur, volete del pane? Dobbiamo gettarlo, è di ieri” lo rassicura, perché non pensi gli si offra il ruolo del mangiatore di croste.
“Cosa avete?” si accerta.
“Del pane, è buono, l’abbiamo comprato ieri sera, ma non lo mangiamo”
“Ah del pane” vedono già dipingersi una calma appagante sul suo volto “No grazie, ne ho già mangiato”
I due fanno una pausa sorpresa, imbarazzati.
“Sapete, cerco di variare un po’, grazie comunque” e se ne va.
L’unico barbone salutista di Parigi incontrato alle 13 e trenta di un giovedì mattina.
Loro restano sul posto un istante, una delusione sospesa, come se avessero fatto una proposta ben più immorale all’uomo (non so, gli avessero chiesto della droga o di prestarsi per un orgia dietro compenso) e questi, signorilmente avesse rifiutato: “non sono quel tipo di uomo, mi dispiace”.
I due se ne vanno tristi, e finisce che il pane se lo mangiano loro.