Paris is a moveable feast ("Festa mobile" Hemingway). Blog su un erasmus a Parigi.

Friday, September 16, 2005

Premiere jour

Arrivo alla gare de Lyon in Tgv, prendo un taxi per non morire sotto il pesso delle valige. Abito al foyer charonne al 5° piano (no, non c'è l'ascensore. E si, ho rischiato l'infarto). Si mangia alle 19, prima perdo conoscenza.
La cena è il momento di socializzazione. Rispetto agli altri luoghi in cui ho vissuto in comunità questo si distingue per l’educazione dei suoi ospiti. Che siano francesi, libanesi, vietnamiti o italiani, tutti si offrono di servire gli altri. Chi distribuisce l’insalata, chi la carne, chi si alza a prendere l’acqua e riempie i bicchieri. I tavoli sono da otto, alle 19 suona una campana, chi è interessato scende all’ingresso e ritira un cartellino con il proprio nome. Poi bisognava unirsi ad altri sette e scendere nella sala comune.
La prima sera sono capitato al tavolo con altre due italiane, un vietnamita, due francesi, un americano e un tedesco. La cena, considerati gli standard di uno studentato è oltre le aspettative. Il dopocena porta un po' di spleen, nessuno da chiamare per uscire, pochi legami, contatti, punti d'appoggio. Il mio primo problema quindi è non tanto se uscire o meno (opzione non contemplata dalla carta dei diritti del cittadino) ma quale dei 36 locali, per limitarsi al jazz, scegliere. Il premio al miglior nome va a “Les Matins Bleus”. Troppo lontano e troppo caro. La “Viel Orléans orchestra” non avrebbe rivali, ma è già passata. Alla fine, per vicinanza e costo la scelta cade su “La Fontane” in rue de grange au belles. In dieci minuti e due metrò sono là. Continuo a ripetermi che mi serve una bicicletta. Il posto è all’incrocio di due strade, tavolini fuori, vecchi finestroni bianchi su entrambi i lati, luce rossa. Mi siedo e ordino un beaujolais. Alle 10 il trio “paceo jam” inizia a suonare. Un jazz sincopato e veloce. La star della serata sembra dover essere il chitarrista, ma dopo poco inizio a odiarlo. Suona con gli occhi chiusi, molleggiandosi sulle gambe, è molliccio, fuori tempo. La batterista non manca un colpo e riesce in qualche buona improvvisazione, il contrabbassista è indiavolato, due braccia da carpentiere e dieci dita che non si danno pace. Strisciano, sollevano, battono le corde. Pa tu tum ta tum pat tu ta. Insieme fanno l’effetto della Wermarcht che fa fuoco su un fantolino. Arriva una wolksvagen azzura degli anni 40, si parcheggia con una ruota sul marciapiede. Un uomo vestito di bianco sta per attraversare, si blocca e scuote la gamba nell’aria come si frena un cavallo che impenna.
Qui basta poco per improvvisare un romanzo.

Dopo un’ora si fa una pausa perché con le finestre chiuse si fatica a respirare, decido che basta così. Esco, pago il beaujolais -“merci monsieur, bonne soirée”- e uno si chiede dove viva il resto del genere umano. Fotografo la macchina e mi incammino. Mi ci vuole una bici.
Il cielo di Parigi e i boulevard sono stati disegnati insieme. Non conosceremmo nessun Hausmann senza il primo. Così netto, staccato come fosse sotto un vetro spinto da una gravità opposta. Definito anche se nuvoloso, taglia i contorni dei palazzi. Sembra una scenografia, come nei dipinti di Matisse (e se questo programma corregge ancora in “patisse” lo distruggo). Sulla Senna poi… ma c’è tempo. Compro una birra prima di scendere in metrò, la berrò scrivendo. Poi, leggendo mi addormento.
16-09-2005 0:26

0 Comments:

Post a Comment

<< Home